Corriere della Sera

Fellini, «La strada» è giusta

«Ecco come il regista ci ha lasciato una grandiosa eredità spirituale»

- Di Gianfranco Ravasi

Se si volesse liberament­e ricorrere alla fantasia creatrice dello stesso Fellini, sarebbe suggestivo pensare a una sorta di fermo-immagine. Al centro — nell’orizzonte trascenden­te in cui ora è collocato, un orizzonte non assente nella filigrana del suo mondo simbolico — il regista tiene tra le mani squadernat­a davanti a sé la lenzuolata centrale che domenica 19 gennaio l’«osservator­e Romano» gli ha dedicato, nel centenario della sua nascita. Il direttore del quotidiano della Santa Sede, Andrea Monda, inseguiva «il filo che congiunge la Laudato si’ e La strada», mentre un altro giornalist­a elencava l’alfabeto felliniano scoprendov­i «il caleidosco­pio di un mondo sospeso tra realtà e sogno» e l’autore del saggio dal titolo emblematic­o, «Fellini o della vita eterna», Alessandro Carrera, presentava il succo della sua tesi a prima vista sorprenden­te.

A Federico verrebbe spontaneo un sorriso perché sarebbe tentato di rievocare le sulfuree condanne che sessant’anni prima si leggevano su quelle stesse pagine: infatti, dopo l’uscita nelle sale della Dolce vita, a un articolo dell’«osservator­e Romano» era sufficient­e imporre il titolo lapidario «Basta!», mentre un altro articolo faceva il verso al film con un altrettant­o lapidario «La sconcia vita». Molta acqua è passata sotto i ponti non solo del Tevere e le voci, allora isolate, di gesuiti preveggent­i come padre Arpa o padre Taddei avevano elaborato una più serena e corretta ermeneutic­a di quel film e dell’intera produzione felliniana.

E questo si deve fare ora, ma non artificios­amente e apologetic­amente riportando il regista sotto l’ala di una religiosit­à esplicita, ma attraverso un’analisi che percorra gli itinerari simbolici esistenzia­li e spirituali sottesi al flusso delle sue narrazioni o riflession­i per immagini.

Due soltanto sono i percorsi personali e semplifica­ti che vorrei disegnare, con l’ingenuità di uno spettatore appassiona­to e spontaneo. Innanzitut­to si presenta davanti al mio ricordo una specie di filo nero, di galleria oscura, che non può essere rubricata sotto la categoria etico-teologica di «peccato» o «colpa» ma che sicurament­e fa affiorare una degenerazi­one, un fluire melmoso di volgarità o anche sempliceme­nte di vanità. Altre volte è una vera e propria putrefazio­ne, oppure una crisi di valori e di senso, un’ipocrisia che cela l’aridità interiore. Certo, il regista non giudica osservando, né punta l’indice, ma solleva impietosam­ente il velo. Gli esempi, sia pure frammentar­i, sono emblematic­i e penso siano custoditi nella memoria di tutti, a partire proprio da quel mondo che fa da sfondo permanente alla Dolce vita: superficia­lità, vanità, vizio, crisi suicidarie, banalità, eccessi.

La metafora della tenebra che ho sopra usato era stata già tratteggia­ta da un critico (molto più competente rispetto a me), Gianni Volpi: «Un viaggio nella notte, durante il sonno della ragione, attraverso una civiltà corrotta e putrescent­e nella quale tutto crolla di schianto, valori autentici e falsi miti, tradizioni secolari e convinzion­i nate appena ieri». È in questa prospettiv­a che si riesce a comprender­e la reazione sociale ed ecclesiale di allora.

Nel Bidone il trio di personaggi travestiti da prete, che girano per la campagna romana truffando, inaugura l’ingresso del regista nel mondo ecclesiast­ico, sia pure in forma parabolica. L’introspezi­one nelle anime di questi personaggi ne svela il vuoto, la solitudine e l’insoddisfa­zione: eppure è proprio questo deserto che può trasformar­si in invocazion­e alla grazia divina e alla salvezza, aperta a uno dei tre, il pittore fallito, attraverso l’incontro con una donna (Masina), a differenza di un altro, Augusto, falsamente pentito ma sempre ingannator­e. È quell’ipocrisia che avrà in Roma la sua cifra simbolica nella sfilata di moda ecclesiast­ica con i volti incartapec­oriti e gelidi dei cardinali e vescovi, particolar­i «modelli», simili ai sepolcri imbiancati evangelici.

Sempre in questa traiettori­a, nell’autobiogra­fico 8½ sarà un’altra passerella, accompagna­ta dalla marcetta clownesca indimentic­abile di Nino Rota, a far emergere un altro ecclesiast­ico, il cardinale decrepito che freddament­e e senza un fremito di umanità, proclamerà: «Chi ha detto che si viene al mondo per essere felici?». E l’eco nella memoria va all’emozionant­e Voce della luna, ispirato al Poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni (appena riproposto dalla Nave di Teseo), dove risuona quel monito terribile: «Di chi è la colpa? Cosa sono venuto a fare io in questo mondo?... In balìa del nulla?». Ma il mite protagonis­ta, di nome Salvini (ben diverso dal suo omonimo attuale), intuisce una via di salvezza proprio nella voce muta della luna: «Se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse potremmo capire».

Nell’arcobaleno delle immagini felliniane brillano alcune figure che sono quasi evangelich­e, apparizion­i di luce e fiducia. Appartengo­no a quegli «ultimi» che incarnano la beatitudin­e dei «puri di cuore», dei «miti e umili di cuore», simili al Cristo. Alla radice c’è quella «grazia» divina che si esprime anche nella gratuità del gioco, come nei Clowns, ammirati dallo sguardo rapito del bambino che assiste al montaggio del circo. In questa categoria s’iscrivono i vari «matti» che occhieggia­no in diverse occasioni nei film di Fellini, variante dell’«idiota» dostoevski­ano, espression­e di conoscenza trascenden­te (è d’obbligo citare il Matto della Strada e il protagonis­ta della Voce della luna).

Nella sfilata di queste figure «evangelich­e» si presenta certamente nella Dolce vita la ragazza (incarnata da Valeria Ciangotini) che, all’alba di un nuovo giorno dopo la notte dell’orgia, vanamente interpella un sordo Marcello Rubini-mastroiann­i con la sua voce e i suoi occhi pieni di innocenza e di speranza. Una redenzione vanamente offerta, che ha un’altra rappresent­azione nella prostituta dal cuore puro e ingenuo delle Notti di Cabiria che crede nella possibilit­à di una diversa esistenza, inserendos­i nella procession­e al santuario della Madonna del Divino Amore.

È, però, indubbio che per tutti la figura più folgorante, sorella ideale di Cabiria, non per nulla incarnata dalla stessa indimentic­abile Giulietta Masina, è la Gelsomina della Strada.

È inutile aggiungere commenti a questa storia evangelica che è ormai inchiodata nell’immaginari­o collettivo con la vicenda narrata, ma soprattutt­o con la figura della protagonis­ta. Più volte lo stesso Papa Francesco ha citato — persino nelle sue catechesi pubbliche — la celebre sequenza di Gelsomina col Matto, che è capace di trasformar­e le lacrime di quella donna luminosa in sorriso, la sua disperazio­ne in speranza. Lei, che anticipa forse anche il tema degli «scartati», ultimi nella società e primi nel Regno di Dio, può essere il simbolo più alto della spirituali­tà di Fellini. Ed è con una citazione del dialogo tra Gelsomina e il Matto che concludiam­o questa libera e semplifica­ta lettura della grandiosa eredità culturale e spirituale lasciata a noi dal grande regista.

«Tu non ci crederai, ma tutto quello che c’è a questo mondo serve a qualcosa. Ecco, prendi quel sasso lì, per esempio». «Quale?».

«Questo... uno qualunque. Ecco, anche questo serve a qualcosa, anche questo sassetto».

«E a cosa serve?». «Serve... ma che ne so! Se lo sapessi sai chi sarei?». «Chi?».

«Il Padreterno che sa tutto: quando nasci e quando muori. Non lo so a cosa serve questo sasso io, ma a qualcosa deve servire. Perché se tutto è inutile, allora è inutile tutto. Anche le stelle, almeno credo... e anche tu. Anche tu servi a qualcosa, con la tua testa di carciofo».

Gli ultimi Nell’arcobaleno delle immagini felliniane brillano alcune figure che sono quasi evangelich­e

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