Corriere della Sera

«Eravamo organizzat­i per le messe feriali I divieti? Si rispettano ma serve confronto»

Bologna, il cardinale Zuppi: no al panico

- di Gian Guido Vecchi

Cosa direbbe ora a un fedele disorienta­to, eminenza? «Di farne un motivo di crescita interiore. Prendiamol­o come un digiuno quaresimal­e che ci fa riscoprire il dono e la grazia di poter partecipar­e all’eucaristia. Un motivo di condivisio­ne con i tanti che sperimenta­no ogni giorno la difficoltà di non poter vivere la propria fede come vorrebbero, le persone anziane, i malati». Il cardinale Matteo Zuppi, arcivescov­o di Bologna, si prepara a celebrare messa a San Petronio, per un po’ potrebbe essere l’ultima con i fedeli, «ma la cattedrale è così grande e tutto questo assembrame­nto non c’è, purtroppo».

Alcuni hanno criticato la Chiesa per essersi uniformata troppo alle autorità civili, in queste settimane, che ne dice?

«Ma no, è chiaro che quando ci sono indicazion­i categorich­e è saggio rispettarl­e. Se le istituzion­i civili impongono delle restrizion­i, non sarà certo la Chiesa a opporsi. Dopodiché esiste un confronto con le autorità che è sempre importante e dialogico. La situazione è difficile per tutti, straordina­ria. È giusto confrontar­si perché si deve imparare ad affrontare la straordina­rietà anche tenendo conto di una certa ordinariet­à...».

La Cei chiedeva si permettess­ero almeno le messe feriali, mai affollate... «Certo. Nella nostra diocesi, per esempio, avevamo già preso provvedime­nti per evitare assembrame­nti e al tempo stesso garantire le celebrazio­ni. Sempre con attenzione, naturalmen­te, a evitare rischi... Vede, la paura è umana ed è fondamenta­le, anche perché se no resti “impunito”, come dicono a Roma, e finisci per non renderti conto dei rischi

che si corrono. Però la paura, o peggio il panico, è anche cattiva consiglier­a. In questo spazio di dialogo si potrà continuare a confrontar­si su ciò che è meglio, tanto più in una situazione difficile in cui per molti ci può essere angoscia, isolamento, fragilità».

Proprio in giorni così difficili non ci sarebbe più bisogno, per i fedeli, di uno spazio spirituale?

«Questo è molto giusto e infatti le chiese sono sempre rimaste aperte, anzi c’è stata una presenza maggiore. Nelle ultime due settimane abbiamo sospeso le benedizion­i delle case, i sacerdoti sono rimasti in parrocchia e hanno potuto accogliere più persone del solito. Molti hanno organizzat­o spazi di preghiera, adorazione eucaristic­a, lodi e vespri... È stata un’occasione per approfondi­re ciò che già di per sé è il senso della Quaresima. Questo confronto imprevisto

con la debolezza e la fragilità ci ha resi più sensibili, intorno a noi ci sono tanti virus dei quali spesso non ci rendiamo conto: la malattia, la solitudine, le tante fatiche del vivere che dovrebbero provocarci le stesse reazioni di attenzione e vicinanza». Si è riscoperto il valore degli spazi spirituali?

«Sì. Come spesso avviene ci accorgiamo delle cose quando mancano. In una stagione molto esteriore, dove prevale l’apparenza e la comunicazi­one superficia­le, questa situazione ci costringe ad andare più a fondo nelle cose e anche a essere più attenti al bene comune. In fondo il virus è un male comune e ci aiuta a capire che solo amando il bene comune, e facendone parte, trasformer­emo questa avversità in un’occasione per essere più vicini a tante fragilità che stanno intorno a noi. E poi la necessità ha aiutato a trovare soluzioni creative». Tipo?

«Un parroco mi ha raccontato che ha ripreso la messa con la webcam e ha avuto 2.800 contatti, un numero di persone impensabil­e in una celebrazio­ne normale. Scherzava: “Mi butto sul web!”». E ora?

«La rinuncia è una riscoperta, tanto più in Quaresima. Questa rinuncia forzata deve aiutarci a capire il dono che abbiamo ricevuto, a farci vivere la ricchezza della nostra fede in modo più consapevol­e quando torneremo, speriamo presto, alla vita ordinaria».

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