GLI ITALIANI INVASORI DI SÉ STESSI
Il testo di Feniello (Laterza)
Scagli la prima pietra l’italiano che non ha sangue di invasore nelle vene. Chi non ha, nel suo albero genealogico, almeno un antenato che partecipò a un sacco della Penisola e, al tempo stesso, che non fu a sua volta vittima dei «barbari».
Chi sono gli italiani? I gloriosi antichi Romani che soggiogarono l’intero mondo allora conosciuto partendo dallo sterminio di Etruschi, Sanniti, Equi, Latini e di altri popoli che già abitavano le terre tra le Alpi e il mare? Ovvero coloro che, a detta dei vinti — lo ammette pure Tito Livio — «non potranno essere placati se non daremo loro il nostro sangue da succhiare e le nostre membra da sbranare»? Quando i vincitori si illusero, sottomettendo e assimilando, di aver consolidato in eterno il loro potere, giunse un generale africano «subdolo, bugiardo e spietato». Compiendo un’impresa inimmaginabile per l’epoca, devastò e terrorizzò l’italia per oltre cinquemila e quattrocento giorni. Annibale giunse davvero a un soffio dal distruggere il mondo romano, poi sparì annichilito da tanta ambizione.
Sventato il pericolo, gli uomini dell’urbe praticarono gli stessi abusi ovunque, finché si affacciarono, dal Nord, i Goti. Roma la magnifica, l’eterna, l’inossidabile venne saccheggiata dalle truppe del bruto Alarico, che nell’immaginario italico è il capostipite dei nazisti di tutti i tempi. Fu quindi la volta dei Longobardi, dei figli di Maometto, dei Normanni, su su fino ai Lanzichenecchi, che Roma la straziarono, la seviziarono: ne fecero il circo dei loro istinti subumani.
Il vol d’oiseau sulle pene del martoriato Paese non s’arresta nemmeno con l’avvento del «liberatore» Bonaparte, che fece sognare illuministi e liberali, ma, nella sostanza, trattò l’italia alla stregua di un bancomat ante litteram, dal quale estrarre denaro e capolavori per rimpinguare le casse dei reggimenti e le sale dei musei. Vennero ancora l’austriaco e le sue forche, il piemontese che si arrogò l’appellativo di italiano, il nazifascista e l’americano.
Terra di inesauste scorribande, l’italia. Amedeo Feniello, professore di Storia medievale all’università dell’aquila, evoca con un’intensità che ricorda quella dello Stefan Zweig di Momenti fatali, il calvario di una Penisola troppo ricca, troppo bella, troppo accogliente per non accendere le brame altrui. I nemici degli italiani è il titolo dell’agile libro appena pubblicato da Laterza (pagine 114, 12) nel quale, con l’escamotage di un dialogo che ricorda il leopardiano Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere, si domanda (con il supporto di Alessandro Vanoli) se l’italia, e con essa gli italiani, non siano che un’invenzione.
La risposta giunge alla fine. Feniello la fa emergere lentamente, strada facendo. Lascia intendere che nulla di biologico, di geografico, di scientifico e di culturale, se mai fosse necessario, avalla l’ipotesi che noi si sia un popolo. Siamo diventati un popolo, di volta in volta, quando avevamo un nemico comune, un Golia sempre rappresentato con tratti orribili e al tempo stesso maestosi per lasciare meglio emergere le doti di resistenza e di intelligenza del Davide aggredito.
A ogni assalto, a ogni invasione l’italiano vedeva prospettarsi la fine del mondo, o almeno del suo mondo. Poi «la vita prevaleva su tutto. E più si combatteva e si odiava, ma anche si sopravviveva e si condivideva, più ci si mischiava, diventando un amalgama dalle mille sfaccettature». Esiste allora l’italiano? Certamente, è la sintesi di tutti coloro che, di volta in volta, ha temuto come invasore: è l’invasore di sé stesso.