Il tocco surrealista di Buñuel in un mondo oltre la Storia
Il fascino del cartoon che riscopre il maestro del cinema spagnolo
Nella carriera di Buñuel, il documentario che firma nel 1933, Las Hurdes poi rititolato Tierra sin pan (quattro anni dopo, durante la guerra civile spagnola, ne produrrà e supervisionerà un altro, Espagne 37), è un vero e proprio punto di svolta dopo le «provocazioni» dei suoi due primi film, Le Chien Andalou e L’age d’or. Non che passando dalla finzione alle riprese dal vero volesse tradire la scelta di campo surrealista (che condivise per tutta la sua vita) ma si allontana dai procedimenti dell’avanguardia per dare al suo cinema «la forza di uno specchio» (secondo la bella formula di Jacques Lourcelles), che non ha più bisogno di sottolineare le risonanze oniriche della realtà perché la realtà filmata è talmente sconvolgente da essere di per sé surreale.
Un cambio di prospettiva talmente importante (andato di pari passo alla rottura con Salvador Dalí) da ispirare nel 2008 il graphic novel di Fermín Solís Buñuel en el laberinto de las tortugas, diventato dieci anni dopo un affascinante film d’animazione firmato da Salvador Simó, Buñuel – Nel labirinto delle tartarughe, che ripercorre – con qualche libertà ma con sostanziale rispetto dello spirito buñueliano – la genesi e la realizzazione di quell’anomalo documentario.
Per chi non volesse consultare qualche tomo di storia del cinema spagnolo, posso ricordare che le Hurdes è una «comarca» (cioè una suddivisione) della provincia di Cáceres, in Estremadura, dove «trovavi solo rocce, brughiera e capre – come scrive Buñuel nelle sue memorie Dei miei sospiri estremi – un tempo abitate da ebrei che fuggivano l’inquisizione e da banditi», dove agli inizi degli anni Trenta del Novecento gli abitanti vivevano in condizioni di miseria assoluta: non si dice elettricità, ma non c’erano nemmeno le fogne, i poverissimi abitanti dormivano su letti di foglie, dentro a casupole senza finestre, affastellate senza logica che non fosse quella della miseria (e i cui tetti ricordano le tartarughe citate nel titolo del film), affetti da malattie ereditarie come il gozzo.
A parlarne a Buñuel, da anni stabilitosi a Parigi, è il giornalista Pierre Unik (all’inizio del film vediamo i surrealisti che discutono dell’impatto che le loro scelte artistiche possono avere sulla realtà e sulla politica) proprio quando il giovane regista deve fare i conti con i problemi finanziari: l’(ex) amico Salvador Dalí si rifiuta di prestargli dei soldi; i suoi mecenati, i visconti Charles e Marie-laure de Noailles, sono stati costretti dalla borghesia parigina (e dalla madre viscontessa, che ha scomodato persino i fulmini del Papa) a chiudergli la porta in faccia e così realizzare un documentario in Spagna sembra l’unica strada rimasta aperta. Anche perché l’amico aragonese Ramón Acín ha vinto 100 mila pesetas alla lotteria e per mantener fede alla parola data («se prendo il primo
Dalla graphic novel al grande schermo: si ripercorre la genesi e la realizzazione di un anomalo documentario del regista
premio, te lo finanzio io il tuo film») gliene offre 20 mila per le riprese.
Con un disegno nervoso e moderno, né realistico né fanciullesco, il film di Simó racconta le riprese e soprattutto la scoperta di un mondo che sembra fuori dalla Storia ma che possiede una sua indubbia forza, affascinante e terribile insieme.
Ogni tanto il film spezza la rievocazione per scavare nella memoria di Buñuel e nei controversi rapporti col padre (severo e poco affettuoso ma che seppe istillargli l’amore per il cinema comprando una lanterna magica), inserendo sogni e invenzioni surrealiste (la giraffa con le macchie che diventano ripostigli, gli elefanti sui trampoli), ma soprattutto alternando alle disavventure delle riprese dei veri estratti dal film Las Hurdes.
Proprio le scene con le inquadrature più forti – il «sacrificio» dei galli alla festa di La Alberca, la caduta delle capre dai dirupi, l’asino ucciso dalle api uscite dagli alveari che trasportava, la bambina che muore sul ciglio della strada – sono quelle insomma che svelano come certe immagini furono «costruite» appositamente da Buñuel, disposto a «indirizzare« la realtà (sparando alle capre o liberando le api) per aprire gli occhi dello spettatore su un mondo macabro e surreale. Come farà poi con i suoi film «di finzione».