Corriere della Sera

Lo specchiett­o che salva in bici

- Di Susanna Tamaro

Ogni volta in cui la cronaca riporta la notizia di un ciclista travolto da un’auto provo un senso di particolar­e turbamento.

Notizie che spesso occupano appena un trafiletto e che diventano titoli da prima pagina soltanto nel caso che la vittima abbia qualche visibilità pubblica. Così è stato per il tragico incidente che ha sottratto alla vita il giovane e luminoso Matteo Prodi e consegnato il suo investitor­e alla disperazio­ne assoluta.

Nel 2005 anch’io sono stata investita da una macchina mentre pedalavo spensierat­a durante una vacanza al mare. Ciò che mi è rimasto di quel giorno è un cerchione — l’unica parte sopravviss­uta della bicicletta — oltre a un senso di profondo terrore ogni volta che metto piede — cioè ruota — sulla strada. Naturalmen­te, come tutti i veri devoti della bicicletta, appena mi è stato possibile, sono risalita in sella e ho percorso un numero infinito di volte il tratto in cui è avvenuto l’incidente. Speravo mi servisse da antidoto, ma così non è stato. Continuo a pedalare, ma quando imbocco strade asfaltate, nonostante mi ripeta che statistica­mente è molto difficile essere investiti due volte, vengo colta dalla tachicardi­a a ogni macchina che mi supera. Ho detto supera, ma in realtà avrei dovuto dire sfiora, perché nella maggior parte dei casi, gli automobili­sti non consideran­o i ciclisti una realtà concreta ma piuttosto un ologramma proiettato dal paesaggio. Peccato che tra la «sfiorata» e l’incidente mortale — date anche le pessime condizioni delle nostre strade — lo scarto sia minimo. Se improvvisa­mente trovo una buca imprevista e sbando un po’ cosa succede se in quell’istante passa una macchina? Contrariam­ente a quello che si pensa, sono proprio le strade extraurban­e le più pericolose. Quando hai un bel rettilineo vuoto davanti e un magnifico paesaggio intorno, come resistere a scattare un selfie o a mandare un Whatsapp? E cosa succederà quando circoleran­no sempre di più automobili elettriche? Nessun rumore, nessuna possibilit­à di prevedere il pericolo.

La fatalità è sempre in agguato, e molti incidenti sono dovuti proprio ad essa: basta uno starnuto, un colpo di tosse, l’abbaglio del sole al tramonto, un rapido sguardo al cellulare perché la tragedia irrompa nella nostra vita. Ma oltre alla fatalità — che dipende appunto dal fato ed è dunque imprevedib­ile e imperscrut­abile — c’è anche un livello su cui possiamo lavorare, ed è quello dell’educazione. Ad ogni neopatenta­to si dovrebbe far capire che, dal momento in cui si mette al volante, è un possibile e potenziale assassino. È la cosa che penso sempre ogni volta che salgo in macchina. Senza questa consapevol­ezza — e con la complicità delle macchine attuali che, con la loro tecnologia, ci dispensano da una lucida attenzione alla guida — è molto facile essere coinvolti in qualcosa di irreparabi­le.

Educazione che dovrebbe riguardare, naturalmen­te, anche i ciclisti che spesso non si rendono conto di quanto il loro abbigliame­nto li renda invisibili. Vestirsi di nero e di grigio sull’asfalto non è una buona idea, come non lo è quella di non avere lampeggian­ti sempre accesi davanti e dietro, e uno specchiett­o retrovisor­e sul manubrio. Tutti i mezzi che girano in strada — auto, motorino, camion, moto — ne sono dotati, ma le biciclette no, come se godessero di una mitica impunità. Da dove nasce quest’impunità? Forse dai tempi in cui le biciclette erano quelle dell’«eroica». Si pedalava su strade semivuote, le poche macchine erano piuttosto lente e le tecnologic­he forme di distrazion­e moderne erano di là da venire.

Ma adesso che le strade sono percorse da bolidi guidati da persone per lo più distratte, non è una follia consentire alle bici di essere sfornite di luci lampeggian­ti e di specchiett­o, e ai ciclisti di non indossare abiti catarifran­genti nelle strade extraurban­e? Neppure io avevo lo specchiett­o il giorno dell’incidente; se l’avessi avuto, avrei potuto vedere la macchina arrivare alle mie spalle. Ma da quel giorno in poi, l’ho montato sulla mia nuova

Anche io sono stata investita Continuo a pedalare, ma ogni volta che un’auto mi supera vengo colta dalla tachicardi­a bici e in ben due occasioni — un tir su un rettilineo che non allargava per evitarmi e un camioncino guidato da un ubriaco senza controllo — mi ha sicurament­e salvato la vita.

Negli ultimi anni, il numero dei ciclisti è aumentato in modo esponenzia­le. Non è difficile immaginare che crescerà sempre di più nel futuro, data la svolta green del pianeta. Se le città fossero dotate di piste ciclabili degne di questo nome, se ci fossero delle corsie protette sulle strade più trafficate, un gran numero di persone abbandoner­ebbe l’auto in favore della bici per gli spostament­i quotidiani, con gran beneficio della salute, dell’ambiente, del portafogli­o. Nel nostro Paese, purtroppo, andare in bicicletta molte volte non è molto diverso che giocare a una roulette russa. Esco, ma non so se farò ritorno.

E poi, permettete un’ultima nota di una sopravviss­uta. Il casco da bicicletta — che molti per fortuna usano — offre una protezione decisament­e limitata in caso di impatto. Come mai, mi chiedo, ora che siamo capaci di andare su Marte, che la tecnologia sembra in grado di risolvere ogni problema che ci affligge — e anche quelli che non ci affliggono — nessuno sia stato ancora in grado di inventare un gilet airbag capace di proteggere l’umile e silenziosa vita dei ciclisti?

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