Al seggio con la barba: non mi vesto bene per questa (non) festa della democrazia
La prima volta che ho votato per la Knesset israeliana è stata nel novembre del 1988. Ricordo di essermi lavato e rasato prima di andare al seggio, di avere scelto con cura gli abiti e di essermeli provati davanti allo specchio, come se stessi andando a una festa. E, a conti fatti, cosa sono le elezioni se non una festa della democrazia, della libertà, dell’uguaglianza, illuminata dallo splendente raggio della speranza?
Questa volta vado con la barba lunga e i vestiti con i quali ho dormito. Di farmi una doccia non se ne parla neanche, mi lavo i denti, e anche questo solo per una questione di igiene. Non c’è infatti motivo di vestirsi bene per le elezioni del marzo 2020. Non sono una festa, non sono nemmeno un brindisi. Per la prima volta da quando ho cominciato a votare tra i partiti in lizza non ce n’è nemmeno uno che reputo in grado di portare avanti i valori in cui credo, e l’unica cosa che ho potuto fare è stato tapparmi il naso e votare il partito che disprezzo meno.
Sono successe molte cose tra le elezioni del 1988 e queste: ci sono stati l’assassinio di un primo ministro in carica da parte di un estremista religioso di destra nel 1995, una sanguinosa intifada nei territori occupati, il ritiro israeliano dal Libano nel 2000, lo sgombero unilaterale della Striscia di Gaza nel 2005 e, un anno dopo, la presa di potere di Hamas in seguito a libere elezioni. E in tutti questi anni c’è stata da un lato la speranza di una pacifica soluzione politica del conflitto israelo-palestinese e dall’altro…? Dall’altro c’è stato Benjamin Netanyahu. Nel pendolo politico israeliano, perennemente oscillante tra speranza e paura, Netanyahu è da più di 25 anni stabilmente posizionato sul polo della paura.
Attualmente Israele si divide tra i sostenitori indiscussi del premier uscente, che lo ritengono molto più di un rappresentante eletto dal popolo e lo considerano un monarca, il leader di una setta, forse persino una specie di Messia — l’unico in grado di salvare il popolo ebraico — e gente come me che invece vede un uomo su cui pendono capi d’accusa di corruzione e di abuso d’ufficio, disposto ad aizzare ebrei contro arabi, sostenitori della sinistra contro quelli della destra e religiosi contro laici, solo per poter continuare a occupare la poltrona di primo ministro a cui è tanto affezionato e sfuggire alla condanna e alla detenzione.
Se lo sfidante di Netanyahu alle urne fosse un uomo che ammiro, sarei andato a votare più volentieri. Ma al momento l’unica alternativa all’attuale primo ministro è l’ex capo di Stato Maggiore dell’esercito Benny Gantz. Un leader grigio, insignificante, dalle posizioni politiche non sempre chiare e ciò che lo rende il leader del partito che probabilmente raccoglierà maggiori consensi nelle prossime votazioni alla Knesset è un unico, semplice fatto: non è Benjamin Netanyahu. Gantz, verosimilmente, non è corrotto e per il momento, per lo meno, si sforza di non incitare alla violenza, non mente con la stessa preoccupante frequenza con cui lo fa l’attuale primo ministro ed è meno egoista ed egocentrico di lui. Ma tutto questo è sufficiente per guidare un Paese?
Da anni Netanyahu sfilaccia sistematicamente tutto ciò che tiene unita la popolazione israeliana e lo fa talmente bene che al giorno d’oggi, in Israele, ci sono almeno quattro categorie di persone che non condividono nessuna opinione comune: i più o meno messianici sostenitori di Bibi, gli ebrei ultraortodossi, i cittadini arabi contro i quali Netanyahu incita costantemente i suoi sostenitori, e io e altri come me che, seppur vagamente, ricordiamo una realtà diversa, in cui Israele non era un’arena in cui si denigrano selvaggiamente le istituzioni, il sistema giudiziario, le minoranze, ma un Paese in cui i cittadini, pur trovandosi in disaccordo, si rispettavano reciprocamente e mantenevano un senso di solidarietà. E sì, votare per l’unico partito laico e di sinistra in corsa alla Knesset che, a quanto pare, ha perso anch’esso la strada, non è con la speranza di un vicino cambiamento. Quella, purtroppo, non esiste più. È con il palpitante ricordo di un Israele diverso, che esisteva in passato e che forse un giorno ritornerà.
Paese spaccato
Da anni Netanyahu sfilaccia tutto quello che tiene unita la popolazione israeliana
( traduzione di Alessandra Shomroni)