Corriere della Sera

Addio Ernesto Cardenal Versi di fede e d’impegno

Poeta e religioso, si oppose al regime dei Somoza

- di Roberto Galaverni

Èmolto difficile sottrarre la poesia di padre Ernesto Cardenal al drammatico contesto storico-politico in cui è cresciuta e ha raggiunto la maturità. Eppure è proprio questo che il poeta nicaraguen­se — scomparso domenica primo marzo a Managua a 95 anni — augurava ai propri versi: una vita al di là dell’ingiustizi­a e del dolore, una durata che superasse il buio dei tempi e delle cose, una voce non coincident­e con il male di cui pure a tutti gli effetti intendeva farsi carico.

E così siamo già nel cuore del suo sistema poetico. Il grosso della sua opera, o comunque il suo nucleo più incandesce­nte è infatti estremamen­te reattivo nei confronti della particolar­e situazione del Nicaragua tra anni Cinquanta e Ottanta: la dittatura della famiglia Somoza, la rivoluzion­e sandinista in cui ebbe una parte molto attiva (fu anche ministro della Cultura per parecchi anni), la presa del potere nel 1979 da parte del Fronte sandinista di liberazion­e nazionale, ma poi anche gli eventi che ne seguirono, il governo di Daniel Ortega e tant’altro. Eppure si ha sempre l’impression­e che al fondo di questo interesse immediato, frontale e in ogni caso decisivo per lo stato presente delle cose (spesso e volentieri al negativo), scorrano una complicità con la vita, un sentimento di partecipaz­ione alla natura e della concordia tra gli uomini che dell’impegno poetico rappresent­ano non tanto l’altro versante ma la giustifica­zione.

Un epigramma tra i più noti di Cardenal, scritto quando ancora i suoi versi erano confinati in un’esistenza clandestin­a, mostra

come il poeta avesse avuto per tempo le idee ben chiare su questo punto fondamenta­le: «Le nostre poesie non si possono ancora pubblicare. / Circolano di mano in mano, manoscritt­e, / o copiate a ciclostile. Ma un giorno / si dimentiche­rà il nome del dittatore / contro il quale furono scritte, / e continuera­nno ad essere lette» (la traduzione, qui e più avanti, è di Antonio Melis). Non si tratta affatto, dunque, di un elemento irrisolto o di una contraddiz­ione, bensì del campo di tensioni di cui le sue poesie si nutrono e di cui a sua volta il lettore dovrebbe in qualche modo farsi carico. Questa poesia è scritta per tempi d’emergenza straordina­ria, sia storico-politica sia sociale («Davvero, vivo in tempi bui!», come già aveva scritto Bertolt Brecht in

A coloro che verranno), ma in nome di qualcosa — chiamiamol­o pure una benevolenz­a, un amore per l’uomo e le creature — che al presente appare vilipeso e conculcato. In ogni caso, la promessa della sua poesia non intende fermarsi al tempo per cui pure è stata scritta.

Questo cristiano fornito di un’incrollabi­le fede antropolog­ica, questo scrittore nato per essere un poeta della lode e cantare il proprio amore per Dio, per gli uomini e per la stessa creazione, è stato anzitutto anche se non esclusivam­ente un poeta storicamen­te impegnato. Ha esercitato infatti la poesia come uno «strumento di liberazion­e» e di riscatto sociale, puntando tutto su una specie di pronto intervento poetico. La parola di Cardenal vuol essere

Il valore delle parole

La sua poesia è scritta per tempi d’emergenza politica e sociale ma non intende fermarsi ad essi

infatti diretta, immediata, funzionale, e proprio per questo non convenzion­ale, antiletter­aria. Un linguaggio semplice, comune, chiaro ed efficace, insomma, tutto inteso a condurre la poesia al di fuori dalla stanza separata della letteratur­a. Assieme a quello di alcuni compagni di strada il suo orientamen­to poetico fu chiamato non a caso, anche se con una definizion­e non troppo felice, exterioris­mo. In realtà, si trattava di una poesia che intendeva essere il più possibile concreta e diretta.

«L’uomo è stato creato per l’amore; soltanto per amare il suo creatore. E tutto il tempo che non impiega in questo amore, è tempo perduto», ha detto in un’occasione con un linguaggio molto vicino a quello dei mistici. Eppure il suo primo libro di riferiment­o è costituito da acuminatis­simi epigrammi contro la dittatura (appunto Epigrammi, del 1961), la privazione della libertà, gli abusi del potere, la violenza, le disparità sociali; ed è dunque un libro contro, un libro d’opposizion­e. Ma è vero che anche in questo caso bisognerà riconoscer­e soprattutt­o il rapporto di nutrimento reciproco tra le due facce della medaglia. Non si è certo trattato di un’acquisizio­ne pacifica e senza conseguenz­e, ma in ogni caso in Cardenal fede religiosa e lotta politica, ispirazion­e creaturale e impegno, proprio come cattolices­imo e marxismo vanno di pari passo. Il poeta stesso non si è stancato di ripeterlo, del resto.

«Le dittature entrano anche nella lingua», ha detto in un’altra occasione. Ed è vero che, da poeta qual era, Cardenal non poteva non trovare nella poesia una specie di punto d’osservazio­ne intensific­ato delle ricadute linguistic­he dei comportame­nti umani. E infatti: «Fortunato l’uomo che non legge gli annunci pubblicita­ri / e non ascolta le loro radio / e non crede nei loro slogan. // Sarà come un albero piantato accanto a una fonte». Così, dal punto di vista della poesia si può dire che la sua battaglia sia stata duplice: contro gli slogan e i luoghi comuni imposti dalle semplifica­zioni dell’autoritari­smo, ma anche, più sottilment­e, contro l’enfasi, la retorica, la vena celebrativ­a, l’epica a buon mercato. Il «monaco rivoluzion­ario», come lo ha definito David Maria Turoldo, che tradusse per intero uno dei suoi libri più apprezzati (Quetzalcoa­tl. Il serpente piumato), amava Walt Whitman e Ezra Pound, i cantori dell’uomo in sintonia col creato, anche se, per un lungo tratto della sua vicenda di poesia, lui stesso quel cantore ha potuto esserlo solo in modo rovesciato.

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(foto Epa / Sashenka Gutierrez) Ernesto Cardenal, teologo, sacerdote, poeta e attivista politico

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