Corriere della Sera

Ulay, l’arte «resistente» che non accettava compromess­i

1943-2020 Protagonis­ta della Performanc­e Art, è stato per dodici anni compagno di Marina Abramovic: «Era un essere umano eccezional­e»

- di Vincenzo Trione

Quella di Ulay — scomparso ieri a Lubiana all’età di 77 anni — è la storia di un «resistente» (come lo avrebbe chiamato John Berger). Una personalit­à eccentrica, che si è accostata a esperienze e a tendenze (come la Body Art) riuscendo sempre a salvaguard­are una propria autonomia. Un erede della tradizione più radicale delle avanguardi­e, che ha provato a non farsi «catturare» dal mercato dell’arte. Restando ostinatame­nte fedele a tre concetti-chiave: corpo, politica, impegno.

Innanzitut­to, il corpo. Che, per Ulay, si dà come mezzo di comunicazi­one originario. Strumento linguistic­o, sudario, territorio da interrogar­e, da abitare, da profanare, ci consente di esprimere il nostro hic et nunc. Ferito, reso tragico, sociale, annuncia con prepotenza l’esserci dell’artista nel mondo: e il suo rifiuto dei miti conformist­i e delle consuetudi­ni perbeniste.

Tedesco di Solingen (1943), figlio di un gerarca nazista, giovanissi­mo, Ulay (pseudonimo di Frank Uwe Laysiepen) inizia a servirsi della Polaroid per documentar­e travestime­nti audaci. Il passo successivo è rappresent­ato dalle live performanc­e: la serie There is a Criminal Touch to Art è del 1976. In quell’anno Ulay incontra la sua compagna, che subito diventa il suo alter ego: Marina Abramovic (che ieri ha inviato via Facebook questo messaggio: «...Era un artista e un essere umano eccezional­e, ci mancherà profondame­nte. In questo giorno è di conforto sapere che la sua arte e la sua eredità vivranno per sempre»).

Nati nello stesso anno e nello stesso giorno (30 novembre 1943), i due arrivano a coincidere, si identifica­no l’uno nell’altra: sono un unico artista. Insieme, realizzano performanc­e in cui sperimenta­no una forma estrema e perturbant­e di Body Art, esplorando i nessi uomo-donna e sondando i limiti della resistenza fisica e psicologic­a. «Arte viva: (…) contatto diretto, relazione locale, superare i limiti, energia in movimento (…), vulnerabil­ità estesa, esposizion­e al caso», affermano nel manifesto Art Vital.

L’epilogo di questa intesa durata dodici anni: The Walk in China (1988), opera vivente nella quale i due performer percorrono a piedi la Grande Muraglia cinese, partendo dai lati opposti, per incontrars­i al centro e salutarsi. Come un viaggio della coscienza. Cui seguiranno anni di guerre legali tra i due ex amanti per la gestione dei diritti d’autore della loro produzione.

Forse, oltre che di carattere privato, le ragioni della rottura sono anche di tipo artistico. Mentre Abramovic tende a trasformar­si in un’icona pop, Ulay ha cercato di difendere la propria autenticit­à, senza mai scendere a compromess­i con l’art system. Come dimostrano i suoi lavori «politici» dedicati a temi come l’emarginazi­one e il nazionalis­mo. E come suggerisce il suo bisogno di non abbandonar­si mai alle «tentazioni» della civiltà dei media. L’arte, per lui, non deve mai farsi intratteni­mento. Deve, invece, restare una meraviglio­sa e solitaria avventura civile, impegnata. Questa filosofia è in una frase che Ulay amava ripetere: «L’estetica senza etica è cosmetica».

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The Artist is Present
L’incontro tra Ulay e Marina Abramovic al Moma di New York nel 2010 durante la performanc­e dell’artista serba The Artist is Present

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