TERZO REICH ULTIMO ATTO
UNA QUANTITÀ IMPRESSIONANTE DI SUICIDI ACCOMPAGNÒ LA FINE DEL REGIME NAZISTA
Uno studio di Florian Huber (Rizzoli) sulla catastrofe della Germania di Hitler. Terrorizzati dall’avanzata delle truppe sovietiche, decise a ritorcere sul nemico le atrocità subite dal loro Paese, molti tedeschi si tolsero la vita
Fu quella che si consumò in Germania, tra la fine di aprile e i primi di maggio del 1945, un’ondata di suicidi che non aveva avuto precedenti nella storia. Nessuno ha potuto fare un conto preciso, ma si calcola che decine di migliaia di persone si tolsero la vita (e ogni approssimazione è semmai per difetto). Perché? La fine del Terzo Reich, benché a lungo annunciata, giunse all’improvviso. Ciò che accadde al momento della definitiva caduta del regime hitleriano, fu «l’espressione estrema dell’insensatezza e del dolore che la gente provava di fronte alla disfatta, all’umiliazione, alla perdita, alla vergogna, alla sofferenza personale e alla violenza». Così scrive Florian Huber in Promettimi che ti ucciderai. Nazisti fino alla morte. Storia dei suicidi di massa alla fine del Terzo Reich, pubblicato da Rizzoli. È un tema, quello dei suicidi dopo la caduta del nazismo, già affrontato, quantomeno parzialmente, da Anthony Beevor in Berlino 1945 (Rizzoli), da Joachim Fest in La disfatta. Gli ultimi giorni di Hitler e la fine del Terzo Reich (Garzanti). Ma anche da Ian Kershaw in La fine del Terzo Reich. Germania 1944-1945 (Bompiani) e da Götz Aly in Lo Stato sociale di Hitler. Rapina, guerra razziale e nazionalsocialismo (Einaudi). Nel libro di Florian Huber c’è però qualcosa in più.
I soldati sovietici combattevano contro la Germania tra tre anni e dieci mesi. Per la precisione da 1409 giorni, cioè da quel 22 giugno del 1941 in cui le truppe hitleriane avevano invaso l’urss. Dietro la prima linea, lunga 1600 chilometri, le unità delle SS avevano portato a termine stragi sistematiche in quello che per loro avrebbe dovuto essere «l’annientamento dei nemici del popolo». Peggio ancora, quando nel 1943 iniziarono a ritirarsi, i militari della Wehrmacht, nel quadro della politica della «terra bruciata», diedero fuoco a migliaia di città, paesi e campi. I soldati di Stalin arrivavano stremati nei posti in cui erano state consumate queste stragi. Trovavano solo morti e rovine. Nel corso della campagna di Russia, se in media erano morti 2.100 tedeschi al giorno, per quel che riguardava i russi il bilancio quotidiano dei caduti saliva a 14.100. Alla fine di aprile del 1945 erano state uccise almeno venti milioni di persone di nazionalità sovietica. Tanti furono gli esseri umani (russi) che persero la vita per mano dei tedeschi. Orribilmente, nella maggior parte dei casi. E adesso, con l’armata Rossa che stava invadendo la Germania, giungeva l’ora della vendetta. Ogni appartenente all’armata Rossa, tra il 1941 e il 1945, aveva accumulato motivi validi per provare odio e aspirare ad una ritorsione. All’odio poi si accompagnava una debordante sensazione di trionfo che autorizzava a commettere ogni sorta di delitto. Molti di quei russi avevano perso parenti, familiari, figli o amici e, come se non bastasse, combattevano dall’estate del 1941 «senza neppure un giorno di licenza». Con questo stato d’animo giunsero, a fine aprile ’45, al cospetto del Reichstag berlinese, attorno al quale erano asserragliati circa 10 mila sbandati di quella che era stata l’armata hitleriana. In quelle stesse ore (primo pomeriggio del 30 aprile) Hitler, dopo giorni trascorsi a ipotizzare fantasiose tecniche di suicidio, si dava la morte lasciando scritto come non intendesse «cadere nelle mani di avversari che necessitano di un ulteriore spettacolo organizzato dagli ebrei per intrattenere le loro masse isteriche». In molti lo avrebbero imitato.
La psicosi era iniziata nell’ottobre del 1944 con gli «orrori di Nemmersdorf», un paese della Prussia orientale che la Wehrmacht aveva riconquistato dopo l’occupazione dell’armata Rossa. Era stato, Nemmersdorf, il primo paese tedesco conquistato dai russi dopo tre anni e mezzo di guerra e i soldati di Stalin non avevano avuto pietà degli abitanti. Poi il piccolo centro fu riconquistato dai tedeschi, che subito si trovarono a dover prendere atto delle crudeltà dei nemici. La quantità di morti non era stata di dimensioni apocalittiche: l’esercito nazista ne contò venti tra i civili (donne, bambini, anziani). Ma quei venti furono sufficienti all’apparato della propaganda hitleriana — che aveva immediatamente mandato sul posto fotografi e cineoperatori — per lanciare quella che Huber definisce «una grande campagna sensazionalistica». Fu il «Völkischer Beobachter» il primo giornale che mostrò «crudi servizi fotografici, i primi piani dei tedeschi assassinati, a cui i russi avevano sparato in testa, sfondando il cranio, e fracassato i volti al punto di renderli irriconoscibili». Poi vennero altri giornali che pubblicarono foto di bambini morti e di donne violentate, con le gonne sollevate e la biancheria intima strappata. Fu quindi la volta dei cinegiornali, che mostrarono carri saccheggiati, corpicini buttati in fosse argillose e osservatori increduli davanti ai cadaveri allineati. In ogni filmato l’operatore dedicava del tempo a inquadrare il nome della cittadina che doveva restare ben impresso nella memoria: Nemmersdorf. Lo scopo era quello di mostrare ai tedeschi cosa dovevano aspettarsi nell’eventualità di un’invasione sovietica.
Ma quelle foto ottennero un effetto opposto a quello sperato. Anziché fomentare l’odio per le «bestie sovietiche» e accendere un «indomabile spirito di resistenza», resoconti e film gettarono nel panico la popolazione civile. I più pensarono solo a fuggire da quel destino di morte. Benché i capi nazisti avessero rifiutato fino all’ultimo istante della guerra di autorizzare l’evacuazione, scrive Huber, nella Prussia orientale già a dicembre 1944 si mise in moto un’ondata di abbandoni della terra natia che alla fine sarebbe sfociata nell’«esodo in massa su carri e carretti» più grande della storia. Nel gennaio del 1945 l’armata Rossa aveva poi sferrato l’«offensiva invernale contro la Prussia orientale» con «direttrice d’attacco verso Berlino». La «furia della ritorsione per i crimini di guerra d’annientamento tedeschi» si abbatté «su coloro che non erano fuggiti in tempo». Molte colonne di profughi erano rimaste intrappolate tra i fronti o erano state raggiunte dalle avanguardie corazzate sovietiche. Nel corso della loro avanzata, i soldati dell’armata Rossa — «induriti dalla guerra, aizzati dalla propaganda e disinibiti dall’alcol» — avevano commesso innumerevoli crimini. Soprattutto le ragazze e le donne di Germania, «dalle più giovani alle più anziane», erano state vittime di «maltrattamenti indicibili e veri e propri stupri di massa». Secon
do stime affidabili, nella fase finale del conflitto subirono violenza fino a due milioni di donne tedesche. Quel che capitò loro è ben raccontati da Guido Knopp in Tedeschi in fuga (Corbaccio), in alcuni passaggi della raccolta di saggi curata da Marcello Flores Stupri di guerra (Franco Angeli) e si è drammaticamente affacciato in due libri di Günter Grass, Sbucciando la cipolla e Il passo del gambero (entrambi Einaudi). La rabbia distruttiva delle truppe, scrive Huber, era così incontenibile che persino i capi dell’armata Rossa l’avevano giudicata «un rischio per le operazioni militari», talché avevano ordinato di «interrompere i saccheggi, gli stupri e le devastazioni insensate», pena «severe punizioni». Ma tali parole caddero nel vuoto. L’orgia vandalica iniziata nella Prussia orientale era poi proseguita nella Prussia occidentale, in Slesia e Pomerania. Case bruciate, donne stuprate, civili assassinati. Dappertutto. Le notizie di queste violenze erano più veloci dei mezzi corazzati russi e, anzi, ne anticipavano l’arrivo.
Come accadde a Demmin, la cittadina da cui transitavano le ultime, superstiti truppe hitleriane in fuga verso Rostock (facendo saltare i ponti alle proprie spalle). Quando nel primo pomeriggio del 30 aprile i sovietici arrivarono, furono costretti a fermarsi sulle rive del fiume Peene. Fu così che Demmin nel volger di poche ore divenne la «capitale dei suicidi». In che senso? Nei giorni tra il 30 aprile e il 3 maggio 1945, Demmin «fu un teatro di suicidi senza uguali». Schiere di «uomini, donne e bambini» si diedero la morte. Tra i cadaveri c’erano «neonati e bambini piccoli, scolari e adolescenti,
La premessa
In Urss sotto l’insegna della svastica erano stati compiuti terribili crimini che avevano causato la morte di molti milioni di civili innocenti
Ecatombe
Nella piccola città di Demmin si uccisero operai e impiegati, medici e farmacisti, casalinghe e vedove, poliziotti e insegnanti
giovani uomini e giovani donne, coppie sposate, persone nel fiore degli anni, pensionati e anziani». Le loro origini, la professione, lo status sociale «non seguivano alcun criterio». C’erano centinaia di profughi dalla Pomerania, dalla Prussia orientale e occidentale e da altre regioni. Ma anche moltissimi abitanti di Demmin e dintorni. Si uccisero, censisce Huber, «operai e impiegati, funzionari statali e artigiani, medici e farmacisti, casalinghe e vedove, commercianti e poliziotti, direttori e contabili, pensionati e insegnanti».
Tra i corpi fu trovato, sempre secondo l’analisi di Huber, uno «spaccato e un campione rappresentativo della società tedesca di provincia». Fu «come se all’improvviso l’impulso di morte si fosse impadronito di tutti». Nelle fosse comuni che furono scavate ai primi di maggio nel cimitero di Demmin «finirono inoltre decine di individui anonimi, di cui fu ed è ancora impossibile appurare nomi e origini». Erano persone di ogni ceto sociale, professione e fascia d’età.
Effetto di una psicosi generata da Nemmersdorf? Anche. Ma non solo. Non fu esclusivamente la paura di essere seviziate dai russi a spingere quelle persone a dare la morte a sé stesse, ai propri genitori, nonni assai anziani e ai propri figli, anche piccoli. Per quel che riguarda questi ultimi, scrive Huber, «a eccezione di pochi adolescenti in grado di suicidarsi da soli, furono le madri e i padri, talvolta i nonni o altri parenti, a mettere loro il cappio intorno al collo, a somministrare il veleno o a tagliare i polsi». Dei quasi duecento morti anonimi nel cimitero di Demmin, più di un terzo sono bambini o bebè. I russi cercavano nel terreno con bastoni appuntiti tesori sepolti e se pensavano di averli trovati disseppellivano i cadaveri. Una madre che voleva evitare questo scempio ai propri due figli da lei «suicidati» ebbe «la macabra idea di lasciare che le gambe dei bambini spuntassero dalla terra», così che ci fossero sempre «quattro gambette che con tanto di scarpe e calzini marroni» che «facevano capolino fungendo da “avvertimento” per i saccheggiatori»: i soldati smisero di scavare. Davvero raccapricciante. Fu quello dei tedeschi un crollo morale che, quanto meno in tali dimensioni, non aveva precedenti. Come se l’intera Germania si fosse svegliata di soprassalto da un lungo sonno e fosse precipitata in un incubo.
L’epidemia dei suicidi (di cui si colsero le prime consistenti avvisaglie all’indomani dello sbarco alleato in Normandia, nel giugno del 1944) accompagnò «in modo capillare la disgregazione del Terzo Reich». Davanti agli orrori fisici, psichici ed emotivi di quel declino, il suicidio «si staccò dalle convenzioni sociali che lo classificavano come un atto estremo, inconcepibile tanto per le generazioni future quanto per la convivenza umana». La secolare condanna della Chiesa «gli aveva conferito l’aura dell’immoralità e del proibito». A differenza di una malattia mortale, «la decisione di togliersi la vita non scatenava soltanto compassione e tristezza, ma anche incredulità, profondo raccapriccio e senso di colpa, inducendo a domandarsi come impedirne l’attuazione». Il suicidio era considerato un atto contro natura, che poneva l’individuo al di fuori dell’ordine sociale, se non ne faceva addirittura un trasgressore. Quando si parlava di persone che si erano suicidate, «veniva spontaneo abbassare la voce e mettersi la mano davanti alla bocca». Questo atteggiamento cambiò tacitamente quando i sovietici a Est e gli alleati a Ovest cominciarono a occupare la Germania. Il suicidio «assunse i contorni di un’ultima via d’uscita prima della resa totale». Rispetto agli ultimi anni di guerra, il numero di coloro che a Berlino in quel frangente si tolsero la vita quintuplicò.
E quelli che scelsero di sopravvivere? Attribuirono a Hitler ogni colpa dell’accaduto. A lui solo. La sensazione di essere diventati vittime aiutò i tedeschi a «prendere le distanze dai crimini del nazismo con l’amarezza di chi è stato sedotto e abbandonato». Li dispensò «dal bisogno di farsi un esame di coscienza». E gli Alleati, benché colpiti dal fatto che nessuno ammettesse di essere stato coinvolto nell’avventura hitleriana, assecondarono questo spirito, sentendosene in un certo senso sollevati. Pochi e in pochissimi casi, persino tra coloro che avevano opposto resistenza al Führer o avevano subito patimenti dalle SS, obiettarono a tale rimozione. L’oblio aiutò la Germania a rinascere. Ad Est come ad Ovest. Cinquanta, sessant’anni dopo sarebbe giunto il tempo di un autoesame meno indulgente e più rigoroso. Ma nel frattempo il Paese, riunificato, era nuovamente diventato il più forte e più importante d’europa.