Corriere della Sera

«È un dolore enorme vedere i tuoi amici cadere Serviva la zona rossa»

- Di Marco Imarisio (foto Manzoni/ansa)

G iuseppe Remuzzi ha fretta. «Dobbiamo trovare entro domani almeno cento posti per i malati di Covid-19 che non hanno ancora bisogno di cure intensive, così liberiamo letti per quelli più gravi». Sta parlando del Papa Giovanni XXVIII, l’ospedale del quale è stato direttore del dipartimen­to di Medicina, un posto che per lui è casa, con il quale continua a collaborar­e anche oggi che guida l’istituto di ricerca Mario Negri. I malati normali, tutti gli altri insomma, sono chiusi nel reparto di nefrologia che lui, uno degli studiosi italiani più conosciuti e pubblicati nel mondo, ha diretto fino al 2018. Ogni altro angolo di uno dei più grandi ospedali lombardi, e sono 50 blocchi, è riempito dai pazienti colpiti dal coronaviru­s. «Lei mi chiede come sto». Lunga pausa. «Mi sento come un soldato che perde i suoi compagni. Un mio amico dottore ricoverato in pneumologi­a in situazione critica, altri due intubati. Quando vedi queste cose, con le persone che sono cresciute

d Questa non è una malattia benigna Non è una influenza È una malattia di cui si muore, non solo se si è anziani

E ha colpito molte più persone di quante possiamo trattare d

La gente ha paura di andare in ospedale Così resta a casa finché ce la fa, con tachipirin­a e antibiotic­o. Il 113 ormai ci porta solo quelli che proprio non riescono più a respirare d

In due settimane abbiamo formato 1.500 infermieri e medici Abbiamo un disperato bisogno di personale Oculisti e dermatolog­i stanno imparando l’assistenza respirator­ia

con te in questi anni, che cadono mentre il nemico avanza, ti viene da piangere, non ce la fai. Mentre parliamo vedo le ambulanze che continuano a passare, e su ogni ambulanza c’è un essere umano che non respira. Ecco come sto».

Professore, cosa sta succedendo a Bergamo?

«Qualcosa di enorme. Due martedì fa erano tre morti. Sette giorni dopo, 33. Oggi, 58. Avranno anche avuto altre malattie, ma senza virus sarebbero ancora qui. E le polmoniti di questa settimana sono più gravi di quelle della settimana scorsa».

Come se lo spiega?

«La gente è terrorizza­ta di andare in ospedale. Resta a casa finché ce la fa, con tachipirin­a e antibiotic­o. Il 113 ci porta solo quei malati che proprio non ce la fanno a respirare».

Ma perché un numero così alto di vittime?

«Tra i tanti coronaviru­s che ci troviamo ad affrontare, questo è mutato in fretta. Fatichiamo a trovare una risposta immune. Fatichiamo a curare».

Quale è la verità?

«Questa non è una malattia benigna. Non è una influenza. È una malattia di cui si muore. Non solo anziani, ma anche giovani. E ha colpito molte più persone di quante siamo

In città Un bus del trasporto pubblico di Bergamo passa in una via deserta in grado di trattare».

Ma come si spiega questa virulenza?

«Come ormai tutti sanno, abbiamo due zone colpite. Nembro e Alzano. Già a dicembre i medici di base di quest’ultimo comune si sono trovati di fronte a polmoniti mai viste. Ma hanno pensato che fosse una evoluzione del ceppo annuale dell’influenza».

Hanno sbagliato?

«È difficile capire che sei di fronte a qualcosa di nuovo se non l’hai mai visto prima. Anche noi studiosi eravamo convinti che il virus non fosse così aggressivo».

Poi cosa è successo?

«Alzano Lombardo è una piccola capitale industrial­e. Contatti di ogni tipo. Vai e vieni da ogni parte del mondo. Nembro è una delle città più vive e frequentat­e della zona. Un posto da movida, a farla breve».

Nessun’altra spiegazion­e?

«Le potrei raccontare la storia del dottore tedesco che lavora a Shanghai e a Monaco, che ha avuto contatti con un cinese di Shanghai che sembrava fosse sano, invece non lo era, e lavorava per una compagnia con filiale anche a Codogno.

Ne ha parlato la New England general medicine, la pubblicazi­one di settore più importante del mondo».

E perché non lo vuole fare?

«Perché non serve a niente. Non ora almeno. Da fine ottobre, quando il virus è comparso anche in Europa, fino a gennaio, quando ce ne siamo accorti, c’è stato uno scambio continuo di milioni di persone. Con la Cina, con la Germania, con tutto il mondo».

Dove vuole arrivare?

«Chissà chi è andato, chissà chi è venuto. Il paziente zero non ci serve. Adesso ci servono posti in rianimazio­ne».

C’era qualcosa di diverso che si poteva fare?

«Una zona rossa. Subito, come a Codogno».

Perché non è stata fatta?

«Non lo so. Dico solo che l’assenza di una zona rossa ha peggiorato una situazione già grave».

Le testimonia­nze che arrivano dagli ospedali bergamasch­i fanno paura.

«Ormai sono tutte simili. Dicono che la gente muore. Che anche chi lavora negli ospedali si ammala. Che non c’è posto. Questo virus ci sta facendo capire cose che in tempi normali si fatica a far

I giovani

Se dovessi ammalarmi direi a chi mi assiste di intubare un paziente giovane, non me

capire».

Ad esempio?

«Nelle ultime due settimane abbiamo formato 1.500 infermieri e medici. Abbiamo un disperato bisogno di personale. Abbiamo oculisti e dermatolog­i che stanno imparando l’assistenza respirator­ia».

In tempi normali i neolaureat­i avrebbero dovuto entrare subito in corsia?

«L’ho detto e anche scritto spesso. Il mestiere, lo imparano meglio in ospedale. Ma nessuno ha mai voluto ascoltare. Se l’avesse fatto, oggi avremmo un esercito di “riservisti” prezioso a dir poco».

Torno a chiederle come sta.

«Come tutti, vivo con l’idea che possa capitare a me».

Se dovesse accadere?

«Direi a chi mi assiste di intubare un ragazzo, e non me. Io ho settant’anni».

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● Giuseppe Remuzzi, 70 anni, dal giugno 2018 è direttore dell’istituto di ricerche farmacolog­iche «Mario Negri». Ha collaborat­o come docente di Nefrologia per diverse università italiane, britannich­e e statuniten­si
Chi è ● Giuseppe Remuzzi, 70 anni, dal giugno 2018 è direttore dell’istituto di ricerche farmacolog­iche «Mario Negri». Ha collaborat­o come docente di Nefrologia per diverse università italiane, britannich­e e statuniten­si

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