Il pericolo (per la salute) della solitudine e la lezione di «Cast Away»
In Cast Away Tom Hanks (la cronaca ci informa che anche lui in questi giorni è positivo al coronavirus) è Chuck Noland, un ingegnere che dopo un incidente aereo finisce su un’isola deserta. Sopravvive con acqua di cocco e polpa di granchi, accendendo il fuoco, con mezzi di fortuna. Ma sopravvivere non è garanzia di riuscire a vivere. La solitudine ti può uccidere quasi quanto la mancanza di cibo. Così Chuck prende un pallone, lo trasforma in pupazzo, disegna col suo sangue i tratti di un volto e gli dà un nome: Wilson. È questo il modo con cui Chuck si salva dalla follia. È così: le neuroscienze ci hanno dimostrato in questi anni che la nostra è una mente relazionale. Cresce, si sviluppa, si struttura, si stabilizza solo all’interno delle relazioni. La salute mentale non possiamo darcela da soli. Possiamo solo trovarla nell’incontro con l’altro. La solitudine ci renderebbe folli. E ci sono infinite ricerche che dimostrano come la deprivazione relazionale si trasformi velocemente e inevitabilmente in un problema di salute mentale.
L’emergenza coronavirus impone come priorità assoluta che venga tutelata la salute del corpo. E in questo momento ciò comporta che nessun soggetto sano entri in contatto con un soggetto contagioso. L’ideale, in questa prospettiva, sarebbe chiudere ogni singola persona in una cella isolata. Lì fornirle il cibo che le serve per sopravvivere, fino a che l’emergenza non sarà terminata. In questo modo terremmo vivo il corpo ma rischieremmo di far morire la mente. Come ci insegna l’oms (la stessa agenzia che ora sta cercando di gestire su scala mondiale la pandemia), la nostra salute è il risultato di un equilibrio dinamico tra tre dimensioni su cui si fonda la nostra esistenza:
corpo, mente, relazioni. Oggi tutte le indicazioni che ci vengono date servono a tenere vivo il corpo e ci proteggono dal coronavirus. Ma il rischio è che vada in cortocircuito l’equilibrio che ciascuno di noi ha imparato a costruire nella sua quotidianità. Potrebbe esserci, per alcuni o molti di noi, un’emergenza nell’emergenza attuale: è quella correlata alla salute mentale, o meglio «l’emergenza tenuta». Come resistere per molti giorni in uno stato di isolamento sociale senza avere conseguenze per il nostro equilibrio mentale? Siamo tutti come Tom Hanks sull’isola deserta, in questo momento. E non sappiamo chi può essere il nostro Wilson. Come psicoterapeuta penso a molte situazioni concrete che in questo frangente rischiano di andare incontro a scompensi non di ordine infettivologico, ma psichico. Penso ai figli unici barricati in casa con genitori che magari vivono una fragilità di coppia. Quali risorse quel sistema a «tre» può trovare per affrontare le prossime settimane, non potendo avere contatti con l’esterno? Penso agli anziani barricati in casa in totale isolamento sociale, che tra l’altro vengono raccontati come i più vulnerabili. E quindi devono gestire, oltre alla solitudine, l’angoscia di morte che li attanaglia. Penso ai più fragili tra gli adolescenti che, chiusi tra le pareti di casa, si perdono magari per ore nei videogiochi. Penso ai molti pazienti fragili che non possono usufruire delle loro sedute di psicoterapia settimanale in presenza col loro terapeuta, perché non si può uscire di casa e quindi magari gli parlano al telefono o via Skype. Ma noi sappiamo benissimo che un conto è incontrarsi e un conto è «parlarsi a distanza dentro uno spazio virtuale». Penso che dopo aver fatto quello che andava fatto — ovvero chiuderci nelle case — perché questa cosa non l’avevamo proprio capita, adesso sarà importante che ciascuno possa essere aiutato a trovare i modi per stare dentro a questa emergenza senza impazzire. So che è un argomento scabroso e impopolare, parlare del fuori e dell’altro, oggi in cui le uniche due parole chiave cui dobbiamo adattarci sono «dentro» e «nessuno». Ma «fuori» e «altro» devono continuare a vivere anche in questa dimensione da reclusi. Come si fa? Qualcuno deve raccontarlo al mondo. È un passaggio necessario. Direi obbligatorio. Qualcuno deve dire ai genitori se, come e quando si può portare un bambino a fare una passeggiata nel bosco (per chi ce l’ha vicino a casa) senza fare qualcosa che è contrario alle norme. I media oggi dicono che «sì, si può fare però è fortemente consigliato non uscire di casa». E quindi? Forse potrebbe essere utile, considerato che l’emergenza durerà parecchio, pensare di creare piccole famiglie allargate in cui due nuclei famigliari fatti di sole 2 o 3 persone (genitori single o con un figlio unico) si possono contattare e tenere in relazione, con la regola che non abbiano interazioni con anziani e altri nuclei e consigliandogli di viversi con lo stile di una famiglia allargata. Dico questo anche per esperienza personale: sono genitore di quattro figli e in questi giorni il nostro essere «numerosi» ci ha permesso di avere una buona qualità della vita sotto questo punto di vista. Penso davvero che la gente debba sapere che il proprio corpo ha bisogno di continuare a sentirsi vivo. Perché stare per settimane seduti sul divano a sentire di continuo voci allarmanti e spaventate potrebbe spingere i più vulnerabili alla depressione. E al progressivo allontanamento dal principio di realtà. Sono temi che oggi nessuno tocca perché la priorità è salvarsi la vita, attraverso l’isolamento sociale. E questo è sacrosanto. Ma in questo sopravvivere, bisogna capire anche come continuare a vivere.