Corriere della Sera

«Non licenzio, assumerò Il patron dell’azienda vinicola a Barbaresco: «Ora insegno ai miei figli a parlare in dialetto Quando Brera mi rimproverò al ristorante» altri dipendenti»

- Dal nostro inviato a Barbaresco Aldo Cazzullo

Angelo Gaja, lei ha compiuto ottant’anni in giorni drammatici per l’italia. «È vero. Ma non ci fermeremo. La mia famiglia e io prendiamo questo impegno: non licenziere­mo nessuno dei nostri 160 dipendenti. Anzi, ne assumeremo altri».

Non teme ripercussi­oni per made in Italy?

«Non credo ce ne saranno. Certo, per il turismo è una prova durissima. Sa quando ho realizzato che la situazione era davvero seria?».

Quando?

«Quando, per la prima volta nella mia vita, ho sentito Oscar Farinetti preoccupat­o. Io sono meno portato di lui all’entusiasmo».

Ha paura?

«Ho commesso un errore: ho visto qualche talk-show. Sono ansiogeni, soprattutt­o per me, che non guardo la tv e non vado su Internet. Leggo solo i giornali».

Quanti?

«Nove, dal Fatto quotidiano Libero. La domenica dieci, con Sole 24 Ore».

Com’è cambiata la sua vita?

«Sto più a casa, come tutti. Cerco di cogliere i lati positivi”.

Ad esempio?

«Basta baci. Se ne davano troppi. Due quando ti incontri, due quando ti saluti, e gli svizzeri se ne aspettano tre... Quand’ero ragazzo, in Langa, gli uomini non si baciavano. Si salutavano togliendo il cappello. E si davano del lei. Luigi Rama, il nostro storico enologo, parlava con il vino e gli dava del lei: chiel, monsù...».

Altri cambiament­i?

«È il momento di aspettare, non di correre. Abbiamo rinviato i viaggi all’estero. Gaia, la primogenit­a, ne approfitte­rà per fare un corso di lingue».

Di inglese?

«Di piemontese. L’inglese lo sa come l’italiano. In azienda una volta si parlava solo dialetto. Uno dei nostri lavoranti si chiamava Fiurin, che sarebbe Fiorellino: nessuno ha mai saputo il suo vero nome. Fumava come un turco ed è campato 95 anni. Con i nostri figli — dopo Gaia sono arrivati Rossana e Giovanni — non abbiamo mai parlato piemontese. Questi giorni sono l’occasione per recuperare».

Qual è il suo primo ricordo? il

ail

«I partigiani che vengono a chiedere il vino a mio padre Giovanni. E mia nonna Clotilde, francese della Savoia, che mi manda al forno a cuocere il pane ma poi mi vieta di toccarlo; ne avrei mangiato troppo; il pane finiva in tavola solo quando era raffermo. La nonna era saggia e non rideva mai. Guai a scartare le croste della fontina».

In Langa non ci sono gli Antinori e i Frescobald­i, il vino lo fanno i contadini.

«Anche qui la terra appartenev­a alle grandi famiglie aristocrat­iche. Sull’etichetta delle loro bottiglie avevano lo stemma nobiliare, mentre noi “principi della sterminata famiglia dei Della Zolla”, come diceva Brera, avevamo una foglia o un grappolo d’uva. Poi i nobili hanno venduto i terreni per investire nell’industria a Torino. E hanno lasciato spazio a noi artigiani. Avvezzi al lavoro ben fatto, anche a quello fatto con le mani».

Chi è un artigiano?

«Uno specializz­ato in niente che sa fare un po’ di tutto: il coltivator­e, l’enologo, l’amministra­tore, l’esperto di marketing. E sa governare l’imperfezio­ne; perché la perfezione non esiste. Un vino troppo lavorato perde l’anima».

«Me lo fece incontrare mio padre, con Gino Veronelli, al ristorante della Certosa di Pavia. Mi rimproverò perché sputavo le ossa 

Il segreto della Langa Abbiamo avuto i due padri del liberalism­o, Cavour ed Einaudi. E anche i giocatori d’azzardo, su cui Pavese e Fenoglio hanno scritto pagine memorabili

Ha conosciuto Brera?

delle rane: bisognava mangiare anche quelle, infatti il suo piatto era vuoto. A mio figlio ho fatto conoscere Giorgio Bocca, che era un accanito consumator­e dei nostri vini».

Pavese e Fenoglio, Ferrero e Miroglio, Slowfood e Eataly, il vino e il tartufo bianco: qual è il segreto delle Langhe?

«La politica. Abbiamo avuto i due padri del liberalism­o. Camillo Cavour, che a ventidue anni era già sindaco di Grinzane, ed è il padre del barolo oltre che dell’italia. E Luigi Einaudi, che a Dogliani dopo la messa teneva una lezione di agraria ai contadini, un’omelia laica sul sagrato, fino a quando donna Ida non lo trascinava via. Ci hanno insegnato che il denaro pubblico è più importante del nostro. Che i doveri vengono prima dei diritti. Che non puoi solo chiedere, ma prima di tutto dare».

Però i langaroli sono diversi dai torinesi. I torinesi sono, o meglio erano, inquadrati: militari, preti sociali, operai, comunisti. I langaroli sono irregolari: vignaioli, trifulau, scrittori, suicidi...

«E giocatori d’azzardo. Sia Pavese sia Fenoglio hanno scritto pagine rivelatric­i sui “giugarela”, gli scommettit­ori che si giocavano tutto; e quando avevano perduto la cascina puntavano pure la moglie e la figlia. Dopo la guerra, questo desiderio di rischio, questa energia un po’ disperata l’abbiamo messa nel lavoro. E abbiamo imparato a tenere sempre un po’ di fieno in cascina, per i tempi magri. Come questi che si annunciano».

Fenoglio se lo ricorda?

«Veniva a giocare a biliardo all’hotel Savona, e noi ragazzi dovevamo cedere il tavolo agli adulti. Sigaretta sempre in bocca, gran naso, molto rispettato. Parlava sottovoce, e gli amici pendevano dalle sue labbra».

Tra gli amici di Fenoglio c’era Pinot Gallizio, il pittore che fondò l’internazio­nale situazioni­sta.

«Era il mio insegnante di erborister­ia all’enologica. Inventò la pittura a metro. Andò da Franco Miroglio a chiedergli quintali di colore per affrescare la Torinosavo­na; dovette accontenta­rsi di dipingere le stoffe Miroglio. Ora è nei grandi musei di arte contempora­nea».

Era una Langa che parlava piemontese ma pensava in termini globali. I tartufi migliori non venivano regalati a De Gasperi e Togliatti, ma a Eisenhower e Krusciov.

«E si chiamavano tartufi d’alba solo quelli del basso Piemonte, l’arco che va da Mondovì a Tortona. Dovremmo essere più rigorosi su questo. Proprio per tutelare i nostri prodotti, la nostra identità. E dovremmo evitare effetti speciali, tipo Collisioni, il festival che porta centomila persone a Barolo. In Borgogna non lo farebbero mai, perché tutelano ferocement­e il loro territorio».

In quanti Paesi lei esporta suo barbaresco? il

«Centodue. L’85 per cento della produzione finisce all’estero: Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna,

Svizzera, Giappone, Russia, Cina... In America sono stato per la prima volta nel 1974: mi spiegarono che il vino italiano doveva costare meno del vino francese più economico. Non potevo accettarlo».

Si racconta che Sylvester Stallone al ristorante abbia mandato indietro tre bottiglie Gaja perché sapevano di tappo.

«Voleva far colpo su una signora. Preferisco Robert De Niro, che un mattino è arrivato qui in cantina per una rapida visita ed è rimasto tutto il giorno».

Il cambio climatico ha inciso anche sul suo lavoro?

Insieme

Da sinistra, Gaia e Giovanni vicino al papà Angelo Gaja, con sua moglie Lucia e l’altra figlia Rossana.

Il patron dell’azienda vinicola nata nel 1859 a Barbaresco (nella foto sotto) ha compiuto 80 anni il 7 marzo scorso

«Si vendemmia venti giorni prima, talora un mese. D’estate il suolo tende a diventare duro come il cemento, e dobbiamo prenderci cura del lombrico, che è l’architetto della terra: la smuove, la ossigena, la rende viva. Le aree del barolo e del barbaresco restano limitate; ma si piantano vigneti meno pregiati in alta Langa, dove prima attecchiva solo il nocciolo. La terra cambia. Ci parla. E anche noi dobbiamo cambiare».

Come?

«Abbiamo un geologo, due botanici, due entomologi».

Cosa fa tutto Il rimedio? il giorno l’entomologo?

«Nelle vigne ci sono parassiti nuovi: alcuni non li abbiamo mai avuti, altri non sopravvive­vano agli inverni, che erano più rigidi. Siccome non vogliamo usare pesticidi, fitofarmac­i, antiparass­itari, agrofarmac­i, insomma veleni, li combattiam­o creando parassiti dei parassiti. Si chiama lotta biologica: contro la cimice asiatica c’è la vespa giapponese. Ci sono aziende che fanno insetti, come la Biolab di Cesena, che ci fornisce l’anagyrus e il cryptolaem­us, i due antagonist­i naturali della coccinigli­a, che buca le foglie e sporca l’uva. Il professor Andrea Lucchi dell’università di Pisa ci ha insegnato la confusione sessuale».

Come funziona?

«Il peggior nemico del nebbiolo, con cui si fanno sia il barolo sia il barbaresco, è la tignola dell’uva: una farfallina che deposita sulla buccia le uova, da cui esce un piccolo verme voracissim­o che svuota l’acino. Con la pioggia, l’acino si riempie d’acqua, e si crea una muffa che si trasmette all’intero grappolo».

«I giapponesi hanno scoperto che quando la femmina è pronta per essere fecondata libera feromone. Così abbiamo messo nelle vigne diffusori di feromone, che fanno impazzire il maschio e bloccano la proliferaz­ione».

Una volta si dava

«O l’arseniato di piombo. Era una delle mie mansioni, nei sette anni che mio padre mi fece passare tra i filari, prima di darmi un ruolo in azienda».

Sette anni. Pare una punizione biblica.

«Fu bellissimo. Studiavo economia e commercio all’università, all’inizio non sapevo fare niente. Papà mi affidò al nostro capo-uomo, Gino Cavallo, che per spronarmi mi diceva: “Se il pane avesse due dita di gambe, moriresti di fame”. Mi insegnò a innestare, concimare, zappare. Zappare bene è difficilis­simo».

Davvero?

«Gino Cavallo pretendeva che si eliminasse­ro tutte le erbacce senza strapparle con le mani e senza sfiorare la pianta. Allora dicevano: se non vai a scuola ti mando a zappare. Oggi, se vuoi zappare, devi andare a scuola».

Cosa votava nella Prima Repubblica?

«Pannella».

E adesso?

«Conte non mi dispiace. Mattarella è straordina­rio. Renzi non ha avuto solo demeriti».

E Salvini?

«I pieni poteri in portano bene».

Lei crede in Dio?

«Chi lavora sotto il cielo, e ha come socio il clima, non può non credere a qualcosa di soprannatu­rale che ci protegge. Sono cresciuto ai tempi delle procession­i: per la pioggia, contro la grandine...».

E l’aldilà? il verderame.

Italia non

«Anche qui: chi è a contatto con la natura sa che la vita è un ciclo: scompare e riappare. Credo che ci possa essere un domani. Non so come sia. Ma non mi spaventa».

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