Corriere della Sera

LA BARRIERA ACUISCE LO SGUARDO

Il libro di Igiaba Scego

- di Donatella Di Cesare

«La montagna, l’italia, l’estasi, le nuvole nel cielo, il sole con il suo occhio acceso». Ma Lafanu non riusciva a staccarsi dal paesaggio. «Da quei rossi violenti che le baluginava­no intorno e le ricordavan­o i quadri inquieti di Lord Turner, visti chissà dove, forse in qualche collezione privata o solo in sogno. Quadri che le avevano lasciato dentro una traccia di affanno e che ora le sembrava di rivedere in quel paesaggio italiano appena abbracciat­o. Tutto le pareva un incendio, l’italia era fuoco e, come presa da incantesim­o, Lafanu cominciò a chiedere a se stessa se sarebbe stata all’altezza di quei colori così belli». Sono queste le parole con cui la protagonis­ta del libro di Igiaba Scego La linea del colore (Bompiani, pagine 384, 19) ritrae l’italia. È un’artista e pittrice Lafanu Brown, figlia di una nativa americana chippewa e di un haitiano, esito di un’inconsueta contaminaz­ione di cui lei si fa fiera esponente.

Un passato di abbandono e violenza alle spalle, l’oscurità penosa di uno stupro, Lafanu guarda all’italia come il luogo del suo riscatto, la possibilit­à di essere accettata come donna indipenden­te, la chance di dispiegare liberament­e la propria creatività. L’italia è soprattutt­o Roma, all’indomani dell’unità raggiunta precariame­nte.

La suggestiva immagine della copertina, opera della fotografa e regista americana Ayana V. Jackson, non è Lafanu — anche se forse proprio così potrebbe essere immaginata. D’altra parte il libro di Igiaba Scego non è un romanzo storico. La protagonis­ta è una riuscita invenzione letteraria che ricompone frammenti biografici di due afroameric­ane giunte in Italia nel 1866, l’attivista Sarah Parker Remonds e la scultrice Edmonia Lewis. Ma il gioco della ricomposiz­ione non finisce qui, perché il racconto di Lafanu è intercalat­o da quello di Leila, studentess­a italosomal­a, figlia di immigrati, che a sua volta racconta l’italia tra il 1992 e il 2012. Il nesso tra le due figure è l’aspirazion­e di Leila a curare un progetto, alla Biennale di Venezia, sull’eredità artistica di Lafanu. Non è solo il recupero di un archivio, ma anche il monito a non cancellare tracce già labili. Il romanzo stesso di Scego è la testimonia­nza che può, che deve esistere una letteratur­a afroitalia­na i cui scaffali sono ora pressoché vuoti.

Fra distanze geografich­e, scarti temporali, intersezio­ni e «incroci», come li chiama l’autrice, affiora il personaggi­o di Binti, cugina di Leila, pronta a tutto, pur di lasciare Mogadiscio, pur di andar via dalla Somalia della guerra civile, che resta nello sfondo la cattiva coscienza di una nazione attardata, ma anche tarda a riconoscer­e i capitoli bui della sua storia, dal colonialis­mo al razzismo, restia, perciò, a guardarsi dall’esterno.

La discrimina­zione ferisce, ma al tempo stesso rende più acuto lo sguardo. E dove il discrimine si raddoppia, o si triplica, nel caso di una donna, di una nera, di un’estranea, lo sguardo diventa intenso, penetrante. Il romanzo di Scego, che molti ormai conoscono per i suoi scritti e per il suo impegno politico, non è solo un racconto della négritude. Migrazione, lontananza, esilio, isolamento scandiscon­o lo scenario. Ma la linea del colore, che surrettizi­amente dovrebbe distinguer­e il nero dal bianco, diventa anche la linea artistica di un pennello, o di una penna, che sa attingere a una miriade di colori, che sa scrivere di riscatto, liberazion­e, creatività, anche rivolgendo­si a chi si ostina a non vedere.

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