Corriere della Sera

«Così assistiamo gli altri malati»

Curigliano, da 21 anni in forza allo Ieo di Milano: contattiam­o i malati, esaminiamo ogni singolo caso, non possiamo fare entrare persone infette qui dentro

- di Giusi Fasano

Coronaviru­s. Sempre e solo quello. E i malati oncologici?

«Abbiamo ben presenti i loro bisogni e, mi creda, nessuno viene lasciato indietro. C’è una delibera ministeria­le che è un messaggio importanti­ssimo per tutti loro. Dice, appunto, che il nostro Paese non li dimentica. Tra l’altro la questione se la pongono assieme a noi anche i colleghi di tutto il mondo».

Nei suoi 21 anni allo Ieo, l’istituto europeo di oncologia, il professor Giuseppe Curigliano mai avrebbe immaginato di vivere le sue giornate di lavoro in difesa, «come se fossimo sotto continuo attacco terroristi­co», per dirla con le sue parole. Direttore allo

Ieo della Divisione di terapie innovative del cancro e professore di Oncologia medica all’università Statale di Milano, lui risponde ogni giorno a una valanga di email di pazienti oncologici preoccupat­i.

«Loro sono davanti a due paure, il tumore e il Covid-19. Hanno bisogno di rassicuraz­ioni e di certezze».

Quali domande pongono?

«Per esempio: come faccio ad avere il farmaco in zona rossa? Se ritardo nel prenderlo compromett­o l’efficacia? Posso contrarre il virus più facilmente ora che sto facendo una terapia anticancro? C’è chi chiede che rischio corre se non fa la visita di controllo, chi ha paura di rinviare cure e interventi chirurgici, chi ha appena avuto una diagnosi di tumore e vorrebbe aiuto immediato perché è spaventato. Sono ansie umanamente comprensib­ili per chi sta vivendo questo momento storico da paziente oncologico».

Cosa dicono le indicazion­i del ministero della Salute?

«Distinguon­o due categorie: una off-therapy, cioè che non riceve terapie e che verrebbe da noi per controlli, e una che invece le riceve, cioè con malattia attiva. In questo tempo di emergenza Covid l’ordine delle cose negli ospedali è sovvertito e anche allo Ieo — che è diventato un hub oncologico senza più distinzion­e fra pubblico e privato — ripensiamo di giorno in giorno spazi e priorità. Per noi la cosa più importante è valutare paziente per paziente, decidere che cosa è meglio fare e come bilanciare le esigenze anti-covid e il timing, cioè i tempi giusti nella somministr­azione dei trattament­i».

E in che modo lo fate?

«Ogni giorno chiamiamo i circa 500 malati che dovrebbero presentars­i il giorno dopo. Un gruppo di medici e infermieri li contatta uno a uno e fa una sorta di pre screening: si chiedono gli esami, si domanda di possibili contatti con soggetti potenzialm­ente contagiati, di eventuali sintomi... Dobbiamo capire come stanno e se possono essere infetti. Non deve succedere che entri un malato contagiato. E però nel frattempo nessuno deve essere trascurato. È un lavoro enorme».

E loro come reagiscono?

«Bene. Credo capiscano che nessuno viene lasciato solo in balìa degli eventi. In un certo senso facciamo telemedici­na e facciamo anche educazione. Dato il momento di ridotta mobilità, fra un ciclo e l’altro di terapia li chiamiamo, rispondiam­o ai loro dubbi, diamo indicazion­i su come proteggers­i se hanno difese immunitari­e basse. Se decidi che devi trattare un paziente perché il rischio del tumore è alto, in questo momento devi fare anche formazione. Questo è un effetto dell’emergenza coronaviru­s: dove si può, si fa lavoro clinico telematico».

Molte operazioni sono rinviate, è diffusa la paura che se non viene operato, un tumore possa degenerare.

«Si decide caso per caso fra oncologo, radioterap­ista e chirurgo. Ci sono tumori per i quali puoi dilazionar­e l’intervento

L’esempio Oggi penso a Veronesi, parlerebbe di speranza e direbbe che non si lascia indietro nessuno

senza compromett­ere la prognosi, altri per i quali la chirurgia non è rinviabile. Ma c’è una valutazion­e attenta per tutti. Ripeto: virus o non virus nessuno viene lasciato solo».

Cos’ha imparato da questa emergenza?

«Ad apprezzare le cose semplici ed essenziali della vita. E ho imparato che siamo fragili. Mia moglie è una rianimatri­ce e lavora in prima linea in una Covid Unit, io al mattino entro in ospedale e cerco di proteggere me stesso e i miei pazienti dal virus. Io, mia moglie, i nostri pazienti: siamo tutti fragili, ma i malati lo sono di più. Ieri pensavo a quel che avrebbe detto Veronesi di questa emergenza».

E cioè cosa?

«Secondo me avrebbe detto: non lasceremo indietro nessuno. Avrebbe parlato di fiducia e speranza e avrebbe chiesto di credere e affidarsi alla medicina e alla scienza».

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Oncologo Giuseppe Curigliano dirige lo Sviluppo di nuovi farmaci allo Ieo

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