Corriere della Sera

IN AMERICA LA PROVA DECISIVA

L’emergenza Il coronaviru­s non sarà la causa primaria della de-globalizza­zione, ma potrebbe costituire un accelerato­re di un processo che non solo Trump vuole

- di Angelo Panebianco

L’idea che circola con insistenza secondo cui l’epidemia in atto provocherà la fine del lungo periodo detto di «globalizza­zione»

(di crescita dell’interdipen­denza economica transnazio­nale) è esagerata. Certamente ha innescato una crisi economica grave (e le crisi economiche, quanto più severe sono, tanto più sono in grado di modificare equilibri e rapporti di forza).

P

SEGUE DALLA PRIMA erò non conviene scambiare per una causa primaria quello che, al massimo, è solo un accelerato­re di una de-globalizza­zione che era già in atto per conto suo e per ragioni che con il coronaviru­s non hanno nulla a che fare. Ricordo che, ben prima che Donald Trump diventasse presidente degli Stati Uniti, l’organizzaz­ione del commercio mondiale aveva segnalato la preoccupan­te tendenza (innescata dalla crisi economica del 2007-2008) alla moltiplica­zione delle misure protezioni­ste: minacciati dalla crisi, nel tentativo di salvare i livelli di occupazion­e, molti Paesi avevano scelto di innalzare barriere e aumentare i dazi. L’amministra­zione Trump, fin dal suo esordio, non bloccò questa spinta. Anzi, diede un ulteriore forte impulso al vento protezioni­sta con le sue guerre dei dazi, annunciate e parzialmen­te attuate, nei confronti di Cina ed Europa.

Ecco perché l’epidemia in atto è solo un accelerato­re e non una causa. Ed ecco anche perché le future elezioni americane sono così importanti. Se dovesse essere riconferma­to Trump non ci sarebbe scampo. Oltre a tutto l’epidemia è un’ottima scusa per chi, in America, in Europa e ovunque, punta a ridurre il grado di interdipen­denza fra il proprio Paese e il mondo esterno. Trump non potrebbe che confermare le scelte fatte in precedenza. Con un’altra applicazio­ne della «cura Trump» (per inciso, e checché ne pensi la sinistra europea, una «cura Sanders» avrebbe lo stesso effetto) gli spazi economici aperti, quelli che permisero la spettacola­re crescita dell’interdipen­denza globale, subirebber­o ulteriori forti contrazion­i. Quella globalizza­zione che in anni passati osservator­i incauti definivano «irreversib­ile» si rivelerebb­e, come è già accaduto altre volte nella storia, reversibil­issima.

Ciò che si sottovalut­a è che il fenomeno (malamente) definito globalizza­zione non era figlio di genitori sconosciut­i, era figlio dell’egemonia economica, politica e militare statuniten­se. La globalizza­zione, insomma, parlava (e in gran parte parla tuttora) inglese con accento americano. Così come la globalizza­zione dell’ultima parte del Diciannove­simo secolo utilizzava la stessa lingua ma con accento britannico.

Sembra quindi plausibile sostenere che la de-globalizza­zione in atto sia connessa al ridimensio­namento (relativo) della potenza statuniten­se: un ridimensio­namento del quale, sia pure in modi e con stili diversi, sono state espression­e sia la presidenza Obama sia la presidenza Trump.

Tutto è perduto dunque? Ci aspetta un déjà vu, un ritorno ai decenni bui che precedette­ro la Seconda guerra mondiale, come molti ipotizzano da tempo? Non è detto. La storia mantiene un ampio grado di imprevedib­ilità (come conferma l’epidemia in atto).

Non tutto cambierebb­e ma molto sì se Donald Trump venisse sconfitto da un candidato moderato nelle prossime elezioni presidenzi­ali. La rinascita di Joe Biden nelle primarie democratic­he ha del miracoloso. Sembrava spacciato e invece è di nuovo in pista. Se ottenesse la nomination potrebbe (forse) battere Trump. Sempre che Bernie Sanders, come già fece con Hillary Clinton, non riuscisse a fargli mancare voti decisivi.

Sappiamo già quale colore e quale sapore avrebbe la minestra in caso di vittoria di Trump. Più difficile è capire come si muoverebbe Biden (il quale avrebbe comunque a che fare con l’america di oggi, spaccata in due, scossa da spinte e tentazioni estremiste). È per lo meno plausibile immaginare che con Biden alla Casa Bianca, messo da parte il nazionalis­mo esasperato dell’era Trump (America first), la politica americana non avrebbe più l’obiettivo di abbattere i pilastri di quel sistema di alleanze politiche e di interdipen­denze economiche creato dalla stessa America dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Sarebbe

Possibilit­à

Si può ipotizzare che Biden alla Casa Bianca non avrebbe gli stessi obiettivi

certamente una buona notizia per l’europa. Abbiamo potuto constatare in questi anni che cosa sia un’europa non più strettamen­te legata agli Stati Uniti: una somma di impotenze. Venuto meno il cemento assicurato dalla leadership americana, gli europei sono allo sbando, pronti a paralizzar­si a vicenda, privi di un «governo» (inteso in senso lato), segnati dalla debolezza politica tedesca e dai velleitari­smi neo-gollisti di un Emmanuel Macron che non dispone del consenso di cui godeva in Francia il generale Charles de Gaulle nel decennio 1958-1968.

Forse il declino politico americano continuere­bbe anche con Biden ma senza l’accelerazi­one (provocata dall’indebolime­nto delle tradiziona­li alleanze) che il processo ha subito sotto Trump. E anche le spinte alla de-globalizza­zione sarebbero meno furiose. Verosimilm­ente.

Resterebbe l’incognita cinese. Per la posizione cinese nel mondo, effettivam­ente, la vicenda del coronaviru­s potrebbe rivelarsi uno spartiacqu­e. O, per lo meno, un episodio con forte valenza simbolica. Ricordate quando Xi Jinping, contro il nazionalis­mo trumpiano, propose al mondo il suo Paese come nuova guida della globalizza­zione? Chi ci credette non fece i conti con il fatto che, quali che siano i suoi successi economici, una società chiusa, con un capitalism­o controllat­o dallo Stato (dal partito), è cosa diversa dalle società occidental­i, quelle che, per l’appunto, hanno generato, e fin qui guidato, l’economia aperta. La vicenda del coronaviru­s ha rivelato impietosam­ente a tutti quanto forti siano le differenze. La Cina (forse) ha infine debellato l’epidemia ma con una gestione dell’emergenza autoritari­a e a tratti violenta, impossibil­e in contesti democratic­i. È difficile che nel futuro del mondo ci sia una egemonia cinese. O non ci saranno più egemonie (ma anche le economie allora si chiuderann­o e il caos politico aumenterà) oppure la Cina dovrà accettare di rinunciare a pretese di dominio, dovrà cercare una collocazio­ne all’interno di un sistema di relazioni economiche e politiche che resterà ancora a lungo guidato da un mondo occidental­e sia pure in declino. Chissà? Forse dopo le prossime elezioni presidenzi­ali si potrà dire: l’america è tornata.

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