Parigi, la grande fuga prima dell’isolamento
Il filoso Onfray: molti gli errori commessi
L’epidemia avanza, i morti sono 175 e gli ospedali iniziano ad essere in difficoltà. Migliaia di parigini affollavano ancora ieri le stazioni, in particolare quella di Montparnasse verso Bretagna, Normandia e costa atlantica. Macron chiude la Francia - sul modello italiano - ma c’è anche chi accusa: «Sapeva e ha aspettato ad agire».
Michel Onfray, che cosa pensa della corsa dei parigini verso la provincia?
«Dai tempi di Filippo il Bello, ovvero dal XIV secolo, lo Stato francese è centralizzato. Per cui c’è sempre un po’ di disprezzo per la provincia quando la si guarda da Parigi. La provincia è la periferia delle cose e del mondo. È il luogo dei cafoni, delle smorfiose, dei contadini, dei rozzi, degli ignoranti. Poco importa che questi parigini siano spesso dei provinciali “saliti a Parigi”, come si dice, perché è la città dove si concentrano tutti i Rastignac (l’arrivista di Balzac, ndr) che cercano di avere successo nella capitale. Ma è alla provincia che Parigi da secoli si rivolge per mangiare, anche durante l’occupazione, è alla provincia che si chiede di accogliere i migranti quando arrivano in massa, è alla provincia che si impone la presenza degli espatriati francesi in quarantena fatti rientrare dalla Cina. Ed è in provincia che si va, di questi tempi, a proteggersi dei miasmi della capitale, quando la pandemia si fa minacciosa... La provincia è una ragazza di buon cuore».
Lei vive in Normandia, dove è nato. Quale sarà l’accoglienza della gente del posto?
«Non saprei dire in generale, ci saranno tanti casi diversi... Ma il ripiegamento in provincia delle persone scese da Parigi avverrà nelle case di campagna, residenze secondarie, case di famiglia, il che significa che anche qui si manifesterà la lotta di classe: i poveri che vivono in pochi metri quadrati a Parigi ci resteranno mentre gli altri, che potranno permetterselo, si faranno un po’ di vacanza in dimore accoglienti».
Si ha l’impressione di rivedere in Francia tutte le tappe della vicenda italiana, solo molti giorni dopo. Il governo francese avrebbe potuto trarre lezioni dal precedente dell’italia?
«Sì, certamente. Macron ha esposto al rischio la maggioranza del popolo, rimpatriando all’istante i francesi che vivevano in Cina e mettendoli in quarantena, senza chiedere l’autorizzazione del sindaco, prima in un villaggio del Sud della Francia e poi in Normandia. È probabile che la prima persona toccata dal coronavirus in Francia sia uno dei militari che avevano partecipato a quelle operazioni di rimpatrio, e che a dispetto di quel che si potrebbe immaginare non sono stati messi in quarantena ma hanno goduto di una licenza! In seguito Macron ha rifiutato di chiudere le frontiere nazionali, dicendo che “il virus non ha un passaporto”, per poi acconsentire a chiudere le frontiere di
Schengen, quando ormai la contaminazione dilaga nel Paese che avrebbe dovuto proteggere. Ha esposto i francesi al virus per ideologia europeista».
È possibile che Macron abbia voluto preparare gradualmente i connazionali a causa delle tensioni sociali che attraversano la Francia da tempo, dai gilet gialli agli scioperi contro la riforma delle pensioni?
«Non credo... Macron non ha una colonna vertebrale personale. Va avanti giorno per giorno senza visione storica. È la pedina dello Stato profondo e dei mercati, l’uomo ligio dell’europa di Maastricht che aspira a distruggere le nazioni in modo da fabbricare un’europa costruita come la prima catena di uno Stato universale».
Come reagiranno al blocco i francesi? Come gli italiani o in modo diverso?
«Anche qui credo che ci saranno reazioni individuali. Lo Stato francese non esiste più, non ha più i mezzi per farsi rispettare da molto tempo. Chiunque lo abbia capito sa che in Francia c’è un potere da conquistare... E non mancano quelli che se ne sono accorti».