Noi, medici I VOLTI E LE STORIE di famiglia
«Il mio collega è morto Io esco dalla quarantena» «Sono finito in ospedale Paura? Sì, ma torno in pista» Sono la prima linea della lotta al Covid-19, quelli a cui chiediamo ricette e anche conforto Ecco le voci di chi tutela la salute sul territorio
Ètornato lunedì in ambulatorio dopo 14 giorni di auto isolamento. «Avevo incontrato Roberto Stella poco prima che scoprisse di avere il virus. È morto il 9 marzo. Oggi se fosse qui sarebbe il primo a fare i flash mob con la chitarra. Amava Eric Clapton», ricorda il collega e amico di una vita Alfredo Cuffari, medico di famiglia a Marino, Roma, 1.500 pazienti. È passato alla Asl a ritirare l’equipaggiamento anti-covid. «Glielo descrivo. Un camice in tessuto leggero, una parannanza impermeabile, occhiali, mascherina con filtro FFP2. La Regione ci ha promesso 3 kit di questo genere a settimana ma non in tutte le Asl avviene la regolare distribuzione». Così lui si è organizzato per conto suo. Il fratello, amante di bricolage ed allergico, gli ha passato le sue mascherine, non professionali. Cognati e fratelli hanno dato vita a una raccolta inter familiare per procurargli delle mini scorte. Il lavoro in ambulatorio è scandito da appuntamenti distanziati, per evitare i pazienti sul pianerottolo. All’inizio è stata un’impresa far comprendere l’importanza di attendere all’aria aperta. Ora il clima è cambiato. «Sono momenti in cui avverti il valore del rapporto costruito con i pazienti. A volte mi chiamano solo per un conforto. Non li ho mai sentiti tanto vicini». Non vedeva l’ora di rientrare nello studio, come se stare a casa fosse un tradimento nei confronti di tutti gli altri colleghi che rischiano, lavorano «a mani nude» e qualche volta si infettano. «Mi vengono in mente letture come Centomila gavette di ghiaccio e Un anno sull’altipiano».
Èancora affaticato, si sente dalla voce. Massimo Buzzetti, 61 anni, medico di base a Bergamo, è a casa dopo sette giorni di ricovero all’ospedale Papa Giovanni XXIII. Sta aspettando di sottoporsi ai due tamponi che certifichino la guarigione, per tornare in pista, se saranno negativi. È stato tra i primi colleghi ad ammalarsi. In quel momento, Bergamo non era ancora la provincia con 3.993 contagiati, 460 morti, e 118 su 600 dottori ko tra malattia e quarantena. Erano tre giorni dopo Codogno: «Il 24 ho iniziato a stare male, avevo la febbre e qualche colpo di tosse, ero prostrato. È durata quattro giorni, poi è passata. Sono rimasto sfebbrato due giorni, poi è ripartita. Sono stato a casa subito, non volevo essere veicolo di infezione. Quando ho iniziato a desaturare, ho chiamato il 112 e mi hanno portato in ospedale. Sono stato fortunato, sì, ho avuto solo bisogno dell’ossigeno». Ha avuto paura: «Mi sono spaventato, conoscevo la malattia perché la stavo studiando. La desaturazione poteva preludere a un periodo transitorio di insufficienza respiratoria o, peggio, alla necessità di rianimazione. In questa malattia puoi peggiorare all’improvviso». Ai pazienti l’ha detto subito. Ora, lo stanno sommergendo di chiamate, anche 30 in un pomeriggio. «Non essere sul campo ad assisterli mi ha creato angoscia. Al lavoro torno, appena posso. C’è ansia per le forniture di protezione». È successo proprio a lui che, previdente, prima dell’ondata si era procurato una trentina di mascherine e un migliaio di guanti. «Sarà stata una mia leggerezza, prevedendo che l’ats non ci avrebbe riforniti avevo tenuto i presidi per momenti peggiori».
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