«Yellowstone», western moderno che ricorda i film classici
L e vallate incontaminate del Montana, il limitare del deserto, uno stallone da domare, la faccia segnata di Kevin Costner, un mondo antico che sta per crollare, la riserva indiana da allargare, l’espansione edilizia senza scrupoli .... La serie Yellowstone è un western moderno che a tratti ricorda alcuni film classici (Sky Atlantic).
I primi che mi vengono in mente: Il gigante di George Stevens, 1956, Il marchio dell’odio di Joseph H.lewis, Il grande paese di William Wyler e chissà quanti altri. Perché la struttura è esemplare: Costner interpreta John Dutton, capofamiglia e proprietario del ranch, pronto a tutto pur di difendere i confini della sua terra contro il nemico esterno (non più gli indiani, in questo caso, ma la modernità espansiva). Ma, come canone esige, c’è anche la lotta interna, contro i quattro figli: Kayce, un veterano che ha lasciato il clan dei Dutton per vivere nella riserva con la moglie e il figlio (anche i nativi rivendicano i loro diritti); Jamie, un avvocato che vuole iniziare una carriera in politica; Beth, l’unica donna, un lavoro spietato nel settore finanziario e qualche problema con l’alcol; Lee, che ha dedicato la sua vita al ranch.
Lo schema è molto semplice: da una parte alcuni imprenditori avidi, senza scrupoli e i giochi di potere della politica, dall’altra una comunità indigena intenzionata a vendicare le perdite subite in passato e in mezzo una famiglia-clan intenzionata a difendere sé stessa, i propri possedimenti e la propria identità.
La scrittura non può che essere old style (la dimensione mitica del western classico se la poteva permettere, qui no), troppo prevedibile, con una caratterizzazione dei personaggi scolpita nel legno del Montana. La morale della serie in una frase del patriarca al figlio ribelle: «Non esistono gli uomini buoni, Kayce: tutti gli uomini sono cattivi. Ma alcuni di noi si battono duramente per essere buoni».