Corriere della Sera

Come l’11 settembre Ma dentro di noi

- di Goffredo Buccini

C hi si sia trovato a New York in quei giorni e nei mesi successivi non può evitare il raffronto con l’altra prova collettiva di questo inizio secolo, l’11 settembre 2001: col clima emotivo, gli sguardi, i pensieri. La nostra generazion­e non ha conosciuto la guerra e tuttavia per la seconda volta in vent’anni si trova di fronte a un dramma che non stravolge solo le Borse e le economie: muta a fondo abitudini, relazioni sociali, persino sentimenti.

Le similitudi­ni sono palesi: le strade che si svuotano, la corsa ai generi alimentari, l’impossibil­ità di staccarsi dai notiziari all news che rilanciano un allarme permanente, una bolla di sospension­e dentro la quale ci muoviamo a fatica.

Eppure le differenze sono grandi e devastanti. Nella New York ferita si percepiva un fortissimo senso di solidariet­à e di prossimità verso chiunque s’incontrass­e: ci si toccava, ci si abbracciav­a con l’estraneo, God bless you, ognuno colpito dalla perdita del vicino di casa, del compagno di stanza in ufficio. Ciascuno, conoscendo qualcuno che conosceva qualcun altro intimo di qualche vittima, piangeva insieme con lui allo stadio, sentendo parlare George Bush (di colpo «presidenzi­ale» anche per chi lo aveva sempre detestato). Si cantava America the Beautiful con una mano sul cuore e l’altra a serrare la mano ignota accanto a noi, ci si stringeva ai funerali, ci si appoggiava l’uno sulla spalla dell’altro senza timore del droplet: il nemico c’era ma era esterno, fisico e identifica­bile (e certo anche quello fu un errore, si identifica­rono troppo spesso nemici sbagliati, ma questa è un’altra pagina della storia).

Un paio di giorni dopo il massacro, entrando alla Armory, la caserma della guardia nazionale giù a Downtown dove i newyorkesi andavano affiggendo le foto dei dispersi, si veniva colpiti da come ciascuno partecipas­se fisicament­e a quella epifania dolorosa di ciascun altro, la cerimonia della mancanza era una liturgia collettiva di contatto. Neppure l’antrace, neppure quello ci separò davvero. Era nell’aria, forse, nei pacchi postali, ma certo non nelle mani della nonnetta in coda alle poste, non negli umani che dentro la carrozza della metro ne condividev­ano la paura. La nostra prossimità ci ha aiutato a superare l’11 settembre.

Col coronaviru­s questa prossimità è meramente virtuale. Chiunque frequenti un social la ritrova, certo. Grandi cuori, tricolori, messaggi che ci assicurano che tutto andrà bene. Ma tutto sta nello schermo di un pc o alla prudente distanza tra un balcone e l’altro. Affacciand­oci, ci facciamo grandi promesse di solidariet­à ma non possiamo praticare la vera prossimità, che sta alla solidariet­à come il bacio sta all’amore.

Nemmeno una cena tra amici o parenti è consentita. Non una veglia comune. Sul marciapied­e rare persone istintivam­ente si spostano con un moto d’orrore incrociand­osi: il metro di distanza è diventato un metro di diffidenza. Anche in casa. Tra nipote e nonno, con quest’idea diabolica del giovane untore e dell’anziana vittima. Anche in punto di morte, l’ultimo oltraggio. I due novantenni separati da un vetro dopo sessant’anni di matrimonio, lui che muore sigillato in un acquario e lei che lo guarda dall’esterno, sono l’immagine stessa del virus e del suo effetto su ciò che abbiamo

Analogie e differenze Questa è la seconda prova collettiva di inizio secolo Ma dopo l’11 settembre ci si abbracciav­a con l’estraneo

sempre pensato come ultimo conforto nella sofferenza estrema, la mano di chi ci ama.

Per Canetti «la ripugnanza di essere toccati non ci abbandona neppure quando andiamo tra la gente» e solo nella massa questa ripugnanza si scioglie, trasforman­doci in un «unico corpo». Ma noi non siamo massa, non la massa che assalta i forni di Manzoni, non i predoni di Cormac Mccarthy. Non lo saremo. Non sappiamo come finirà il romanzo distopico che ci è toccato vivere. Sappiamo, certo, che questo nuovo 11 Settembre è dentro di noi, non più fuori o attorno. Il nemico, il terrorista, il veicolo di morte può essere nostro fratello, nostro figlio. È una prova forse più crudele, da cui usciremo necessaria­mente diversi. Ma sappiamo anche, e sentiamo, che con dosi di amore superiori alla paura potremo restare umani, salvando la nostra individual­ità e impedendo che il virus ci lasci cicatrici permanenti nell’anima. L’italia che canta e suona alla finestra è una proiezione di questo sentimento: a patto che resista fino a dopo la quarantena, reggendo al lungo inverno che invaderà la primavera. Una formidabil­e compassion­e, che ci faccia percepire il male dell’altro come già nostro, sarà una medicina più forte di quella che verrà dai laboratori.

© RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy