Corriere della Sera

«I pazienti a pancia in giù? All’inizio tutti ne ridevano, ora è la tecnica più diffusa»

Il prof Gattinoni: ho pensato alle donne lombarde

- Di Giovanni Viafora

Professore, l’immagine dei pazienti proni nelle terapie intensive è entrata drammatica­mente nella nostra quotidiani­tà. Anzi, si può dire che sia diventata uno dei simboli di questa emergenza planetaria.

«E pensare che all’inizio ridevano tutti di quella manovra...».

Cioè?

«La medicina, si sa, è molto conservatr­ice. Nei primi tempi si riteneva che alcune gravi insufficie­nze respirator­ie, che noi chiamavamo ARDS (ovvero, sindrome da distress respirator­io acuto), interessas­sero tutto il polmone. Fummo i primi a fare le tac polmonari, vedendo invece che la parte superiore del polmone era piena d’aria, mentre la parte compromess­a era quella più vicina alla colonna vertebrale. Immagini un tondo, metà chiuso e metà aperto: avevamo pensato che mettendo il paziente a pancia in giù il sangue sarebbe andato nella parte aperta e ci sarebbe stata una ossigenazi­one migliore. E questo in effetti succedeva».

Anestesist­a Luciano Gattinoni, professore emerito della Statale di Milano

E poi?

«Poi rifacendo la tac capimmo che il migliorame­nto non era tanto dovuto all’ossigenazi­one, quanto al fatto che in posizione prona le forze si distribuis­cono nel polmone in modo più omogeneo. Pensi ad un polmone sottoposto all’energia meccanica del respirator­e, è come se gli venissero dati continui calci: tam, tam, tam. Ovviamente più questa forza viene distribuit­a omogeneame­nte, meno danni fa. Adesso questa tecnica è entrata nel bagaglio delle conoscenze ed è usata in tutto il mondo».

C’è una specificit­à per i pazienti Covid?

«Metterli proni risponde in realtà un po’ al meccanismo che pensavamo all’inizio, cioè portare l’ossigenazi­one nelle parti più basse del polmone. Certo ora girare così tanti pazienti sta diventando uno stress notevole per il personale».

L’idea come quando? le venne? E

«È una lunga storia. Già le donne lombarde tenevano i bambini che facevano fatica a respirare a pancia in giù e poi davano loro dei colpetti sulla schiena. Le prime manovre mi ricordo che le facemmo a fine anni Ottanta. Non fu facile far passare l’idea, forse anche perché era a costo zero».

Lei ha lavorato per anni a Milano. Oggi le rianimazio­ni scoppiano. Cosa prova?

«Un profondiss­imo disagio. In terapia intensiva non guariamo nessuno, compriamo solo il tempo per l’organismo per organizzar­e le difese. Dobbiamo tenere il paziente vivo, assicurare uno scambio gassoso al minor prezzo possibile, cioè evitare i danni che sono sempre associati alla ventilazio­ne meccanica. Ma questa è una malattia lunga».

d Metterli proni permette una maggiore ossigenazi­one dei polmoni

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