«I pazienti a pancia in giù? All’inizio tutti ne ridevano, ora è la tecnica più diffusa»
Il prof Gattinoni: ho pensato alle donne lombarde
Professore, l’immagine dei pazienti proni nelle terapie intensive è entrata drammaticamente nella nostra quotidianità. Anzi, si può dire che sia diventata uno dei simboli di questa emergenza planetaria.
«E pensare che all’inizio ridevano tutti di quella manovra...».
Cioè?
«La medicina, si sa, è molto conservatrice. Nei primi tempi si riteneva che alcune gravi insufficienze respiratorie, che noi chiamavamo ARDS (ovvero, sindrome da distress respiratorio acuto), interessassero tutto il polmone. Fummo i primi a fare le tac polmonari, vedendo invece che la parte superiore del polmone era piena d’aria, mentre la parte compromessa era quella più vicina alla colonna vertebrale. Immagini un tondo, metà chiuso e metà aperto: avevamo pensato che mettendo il paziente a pancia in giù il sangue sarebbe andato nella parte aperta e ci sarebbe stata una ossigenazione migliore. E questo in effetti succedeva».
Anestesista Luciano Gattinoni, professore emerito della Statale di Milano
E poi?
«Poi rifacendo la tac capimmo che il miglioramento non era tanto dovuto all’ossigenazione, quanto al fatto che in posizione prona le forze si distribuiscono nel polmone in modo più omogeneo. Pensi ad un polmone sottoposto all’energia meccanica del respiratore, è come se gli venissero dati continui calci: tam, tam, tam. Ovviamente più questa forza viene distribuita omogeneamente, meno danni fa. Adesso questa tecnica è entrata nel bagaglio delle conoscenze ed è usata in tutto il mondo».
C’è una specificità per i pazienti Covid?
«Metterli proni risponde in realtà un po’ al meccanismo che pensavamo all’inizio, cioè portare l’ossigenazione nelle parti più basse del polmone. Certo ora girare così tanti pazienti sta diventando uno stress notevole per il personale».
L’idea come quando? le venne? E
«È una lunga storia. Già le donne lombarde tenevano i bambini che facevano fatica a respirare a pancia in giù e poi davano loro dei colpetti sulla schiena. Le prime manovre mi ricordo che le facemmo a fine anni Ottanta. Non fu facile far passare l’idea, forse anche perché era a costo zero».
Lei ha lavorato per anni a Milano. Oggi le rianimazioni scoppiano. Cosa prova?
«Un profondissimo disagio. In terapia intensiva non guariamo nessuno, compriamo solo il tempo per l’organismo per organizzare le difese. Dobbiamo tenere il paziente vivo, assicurare uno scambio gassoso al minor prezzo possibile, cioè evitare i danni che sono sempre associati alla ventilazione meccanica. Ma questa è una malattia lunga».
d Metterli proni permette una maggiore ossigenazione dei polmoni