Corriere della Sera

Faccio una torta, la guardo lievitare

E mi ritrovo a gridare anch’io: «Viva l’italia» «Stare» qui, adesso in questo altrove

- Di Maria Serena Natale

Sto a casa. Ho fatto la torta di mele. Mi siedo. Aspetto. Ho così tanto tempo ormai che posso stare seduta ad osservare la torta lievitare, lo zucchero in superficie che si fa dorato. Poi arrivi, ti siedi di fronte a me, a distanza di sicurezza dalla mia mano che vorrebbe scompiglia­rti i capelli. A diciott’anni le carezze di una madre sono acido muriatico. Smetto di fissare il forno e ti guardo. Da quanto non lo facevo davvero? Non ti sei fatto la barba, sembri più grande. Tieni le spalle meno dritte, tre settimane senza sport iniziano a farsi sentire, o forse le hai chiuse a proteggere il cuore. Gli occhi invece, quelli sono gli stessi di quando eri bambino. Pensieri veloci, lampi di verde, nuvole rapide (anche se tu i Subsonica non sai nemmeno chi sono). Hai sempre avuto domande nello sguardo. Ora più di sempre vorrei avere le risposte. Ma c’è questo tavolo sporco di farina fra di noi e questo silenzio irreale.

Fai fatica ad addormenta­rti alla sera. Ti sento rigirarti nel letto, muoverti per le stanze. Da me, dalla mia luce accesa non vieni mai. Ieri però mi hai raccontato un incubo. Dovevi andare a trovare un’ amica, era notte ed eri solo. Ti si accendevan­o tutte le spie di allerta della macchina, ma andavi avanti, per arrivare da lei dovevi attraversa­re un ospedale, i malati erano infetti, sembravano i tossici mangiati dal Krokodile. Non trovavi l’uscita, eri in trappola.

Fede secondo me... Mamma, risparmiam­i le tue minchiate da psicoanali­sta. Che poi io la psicoanali­sta la faccio davvero, ma per maneggiare mio figlio aspetto che qualche collega più illuminata mi scriva un tutorial sull’isolamento con un adolescent­e, perché se ti dipingessi un arcobaleno e ti dicessi andrà tutto bene, molto probabilme­nte rispondere­sti, ridendo, «Tutto bene un cazzo». E avresti pure ragione, e la cosa dissonante in questa comunicazi­one sarebbe solo la risata.

E così sto qui, con l’unica domanda sensata strozzata in gola. «Hai paura?». Ma tu non puoi ancora permettert­i di essere vulnerabil­e. Io sono vecchia e ho fatto pace con le mie ferite. E allora vorrei dirti che se fossi in te io avrei una paura fottuta. Come quando ero piccola e qualcuno faceva saltare in aria le stazioni, con dentro la gente stanca che già pensava al mare, e io non sapevo se dopo tutto quel dolore qualcosa sarebbe mai stato come prima. E se fossi in te io sarei incazzata, perché questo è l’anno della tua maturità. La maturità voi ve la state guadagnand­o sul campo, crescendo all’improvviso, che dopo questo, nessun esame avrà più senso. E poi ti meritavi un’estate stupenda, in giro per un’ Europa diversa, una senza frontiere. E magari avresti incontrato una ragazza bellissima che parlava un’altra lingua e anche solo un centimetro da lei sarebbe stato troppo. Insomma quante cose avrei potuto dirti. Invece ti do una fetta di torta di mele. Come mia madre quando provava a riempire l’assenza con le polpette. E stiamo fermi. In questa casa di pietra in cima alla collina. Sotto un cielo senza più aerei. Ad aspettare la primavera.

(Paola Calonghi)

Resistere insieme. In basso a destra Rossella, 11 anni, e Giuseppe, 7, da San Donato di Ninea (Cosenza)

Ècambiato tutto, prima lentamente poi all’improvviso. L’anno incomincia con vaghe, lontane notizie di un virus misterioso che sta creando scompiglio in Cina, in un luogo remoto, ai più mai sentito nominare: Wuhan. Me ne infischio beatamente. Quando il virus sembrava ancora qualcosa di esotico almeno

Genitori e figli, nonni, nipoti. Al progetto del Corriere «Noi stiamo a casa. Diario italiano» avete risposto in tanti raccontand­o inquietudi­ni, progetti, la vita stravolta dal coronaviru­s. Un Paese che tiene la distanza, dove la casa torna il centro del mondo e il tempo è sospeso. Scrivete di amore, solitudine, di un silenzio straniante che rivela presenze e apre spazi alla ricerca di senso. Ecco alcuni frammenti di questo affresco che cresce su corriere.it. Email iorestoaca­sa@rcs.it

quanto la Grande Muraglia e l’esercito di terracotta, vedevo già qualche pioniere in fila al supermerca­to con la mascherina chirurgica intento a sfregarsi le mani. Poco male, è risaputo che il mondo è stracolmo di ipocondria­ci e l’ansia è uno dei mali dei nostri tempi. Poi da lì a poco, un giorno ci svegliamo e con estremo stupore e incredulit­à ci troviamo vulnerabil­i, il virus è tra noi. Per strada ogni persona che cammina sul nostro stesso fazzoletto di asfalto viene percepita con un malcelato timore. La nostra esistenza incomincia a dispiegars­i in

Ci ho pensato eh, non è che non mi sia venuto in mente. Vorrei trovarmi in qualche altro luogo? Magari su un’isola con molto, moltissimo, sole e tanta, tantissima gente. O magari in una parte del mondo in cui possano ancora organizzar­si, circoscriv­ere, prevenire, proteggere, toccarsi. E la risposta è stata: no. Vorrei trovarmi esattament­e dove mi trovo. Nel mio Paese. Adesso. Non sopportere­i di essere in un altrove rispetto alle mie amiche e ai miei amici. Adesso. Non sopportere­i di essere lontana dalla mia famiglia. Adesso. Non sopportere­i di essere a centinaia di migliaia di chilometri, rincorrend­o le notizie su una terra che è anche la mia terra. C’è un modo di abitare il luogo in cui si è che prescinde dalla bellezza o dalla gioia di quel luogo. C’è un modo di abitare il luogo in cui si è che ha a che fare con il senso del trovarsi lì. In un’esplosione di nonsenso, che ci impiastric­cia tutte le mani e ci infanga i pensieri e ci contorce anche solo la sicurezza del respiro, io scopro micro-sensi della parola «stare». Che mi pare legata a uno spazio, a un tempo, a una condizione emotiva precisi. Che mi pare legata a un modo di sentirsi già un po’ oltre se stessi e già un po’ più insieme agli altri. Come sarebbe l’altrove? Per un verso ci siamo già: rispetto alla nostra vita di prima. Stiamo redigendo le prime mappe, i primi percorsi. Poi arriverà il momento in cui, con le nostre mappe dell’altrove, saremo di nuovo liberi. E lì creeremo altre mappe. L’altrove dell’altrove. (Giovanna Miolli)

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