Ma quando finisce?
Non so dirvi quando potremo riaprire le scuole, ammette la ministra. E io scopro che baratterei la mia ultima utopia — passeggiare al parco senza sentirmi un pericolo pubblico — in cambio di una scadenza. Una qualsiasi. 17 aprile. 28 maggio. Va bene anche il 39 giugno. Ma datemi una data. Qualcosa che mi permetta di programmare, cioè di illudermi di avere ancora uno straccio di controllo su quanto mi succede. Eravamo abituati a destreggiarci tra scadenze e ricorrenze. Yogurt, mutui, feste di compleanno: non esisteva oggetto o appuntamento che non avesse un numero stampigliato sopra. Adesso guardo la mia agenda ed è una striscia di croci sbarrate. All’improvviso la vita, pubblica e privata, è diventata un boh. Il tal convegno, il tal torneo, il tal viaggio sono rinviati «a data da destinarsi». O da cestinarsi? La Pasqua rimane fissata per la seconda domenica di aprile o finiranno per spostare anche lei e farci risorgere tutti insieme in una notte di mezza estate ancora da definire?
Poi però penso che la condizione che tanto mi atterrisce è quella con cui hanno convissuto normalmente i nostri avi, barcamenandosi per millenni tra guerre ed epidemie, prima della breve parentesi della seconda metà del secolo scorso in cui ho avuto la fortuna di venire al mondo. Persino nel nostro momento migliore, il Rinascimento, Lorenzo il Magnifico poetava: «Di doman non c’è certezza». Ecco un caso in cui la Storia dovrebbe rassicurarci: noi il precariato esistenziale lo abbiamo nel Dna.