Corriere della Sera

La Turchia blocca le mascherine destinate all’italia (e già pagate)

- Di Milena Gabanelli

Sono ferme lì, alla dogana dell’areoporto di Ankara da 4 marzo. Parliamo di uno stock di 200.000 mascherine Ffp2 e Ffp3 con valvola che la Comitec (gruppo Klinicom) ha acquistato e pagato a fine febbraio dalle Ege Maske, l’azienda turca che ne sforna ogni giorno 1 milione di pezzi, e richieste con urgenza dagli ospedali di Emilia-romagna e Marche. A bloccarle un decreto del governo turco partorito la notte del 4 marzo stesso: per l’esportazio­ne serve l’autorizzaz­ione del ministero della Sanità. Da ormai 20 giorni l’ambasciata italiana sta facendo pressione sul ministero per farle partire, ma la risposta è: «in un paio di giorni sarà sbloccato tutto».

Martedì sera il premier Conte ha telefonato al presidente turco Erdogan, che ha promesso di risolvere la questione in un paio di giorni. Sono passati, e non si è mossa una foglia. Intanto l’azienda italiana ha sborsato 670.000 euro, e non può farseli restituire dal venditore perché sono state regolarmen­te consegnate. Ha solo potuto annullare l’ordine già fatto per altre 300.000 mascherine a settimana fino al 30 aprile. Nella stessa situazione la Sol Group di Monza, che fornisce bombole di ossigeno e assistenza domiciliar­e ai malati di coronaviru­s, ed ha urgenza di proteggere tutta la catena di operatori. Acquistate, pagate e consegnate 90.000 mascherine Ffp2, ma bloccate ad Ankara dalla decisione di Erdogan.

Intanto le aziende turche che hanno ricevuto ordini dall’italia e altri Paesi europei hanno la produzione ferma. Solo l’italia, in questi giorni, ha bloccato commesse in vari Paesi, fra cui la Turchia, per perché gli ordini, sui quali sono stati sborsati anticipi, vengono poi fermati in dogana. La ditta Amet Maske (una della più grandi del Paese) ha dichiarato che se il governo turco sblocca le spedizioni gli regala 300.000 mascherine; ieri il general manager della Ege Maske ha dichiarato a Eleven News: siamo in grado di fornirle a tutti i Paesi europei. In effetti in Turchia, dove ci sono 98 casi di contagio dichiarati su 80 milioni di abitanti, ben 30 aziende sono in grado di produrre 50 milioni di dispositiv­i alla settimana, quindi nelle condizioni di provvedere al fabbisogno del Paese qualora l’epidemia esplodesse.

Di fatto Erdogan, che ha visto l’economia del suo Paese decollare anche grazie alla tecnologia italiana utilizzata nelle sue fabbriche, sta esercitand­o un braccio di ferro tutto politico fra Turchia e Europa, mentre la pandemia corre. A bloccare le esportazio­ni sono anche la Russia, il Kazakistan, l’ucraina, la Romania. E quando un carico parte, non sai se arriva, perché durante il tragitto spesso viene requisito. È successo alla Gvs, un’altra grande azienda italiana, che ha acquistato in Romania mascherine semilavora­te destinate alla protezione civile, ma in questo caso a bloccarle ci ha pensato l’ungheria.

Scopriamo ora la nostra fragilità, quando la protezione dei tuoi operatori dipende dall’avere o meno quel pezzo di tessuto-non tessuto ormai prodotto in Cina, Taiwan, India, Turchia, Corea per pochi centesimi.

Adesso che non si trovano nemmeno a peso d’oro, si sta correndo a mettere in piedi linee di produzione: le sta ampliando la Gvs che già da qualche anno produce mascherine biohazard Ffp3, quelle per i rischi biologici. L’agenzia Industria Difesa sta prendendo accordi per dotare di impianti la loro struttura manifattur­iera di Torre Annunziata, e produrre dispositiv­i 7 giorni su 7 h 24. Resta il tema: la materia prima per fare le Ffp2 dove la prendi? È una partita che si può vincere solo con la collaboraz­ione internazio­nale, perché il virus non ha firmato accordi di Yalta o patti con l’alleanza Atlantica, lui banalmente cerca solo un corpo qualunque in cui infilarsi.

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