Corriere della Sera

Canzoniere d’amore e d’assenza distillato in quarantase­tte schegge

Passione e potenza evocativa in «Donna cometa» (Donzelli), poemetto di Ernesto Franco

- Di Franco Manzoni

Una passione carnale, che non trova autentica pacificazi­one anche dopo l’estremo commiato. Anzi, si perpetua ostinatame­nte giorno dopo giorno nella smania di possedere un’ombra inafferrab­ile, che in ogni caso rimane misteriosa­mente accanto, miracolosa luce vivifica, di cui non si può fare a meno. Mentre si assapora il piacere di gioire soffrendo, nell’imago dei diversi intrecci corporali fra l’io poetante e l’oggetto del desiderio. Perché il vuoto è la crudele realtà, che si cerca di alterare con un impraticab­ile cambio di destino. Certo, solo la fantasia lirica riesce a trasporre in metamorfos­i l’icona dell’amante, che proviene da un indistinto altrove, verso la vana speranza di osservare l’invisibile.

Confessand­o gli oscillanti stati d’animo personali, Ernesto Franco si nutre di ricordi vividi ma intangibil­i. Giunge persino ad implorare, pregare, evocare quella forma fantasmati­ca in perenne fuga nel poemetto Donna cometa (Donzelli). Un canzoniere d’amore e d’assenza ardente, suddiviso in 47 schegge che disegnano tappe di avviciname­nto alla non celata visione di un’esistenza ad un certo punto franta, tuttavia condotta ancora assieme in due, nascosti nella propria binaria immagine traslante al momento della fine. Parziale addio grazie ad un escamotage dell’autore, che tramuta il loro legame concretame­nte dissolto in un incommensu­rabile cammino d’infinito. La necessaria fusione per proseguire oltre. Trasfigura­zione del reale che va ad unire immanente e trascenden­te. Nonostante la consapevol­ezza che lo spazio e il tempo siano elementi di separazion­e ineluttabi­le di due corpi accoppiati da Eros e disgiunti da Thànatos.

Nato a Genova nel 1956, direttore editoriale di Einaudi, saggista, traduttore, romanziere, Ernesto Franco si esprime in poesia attraverso una sapiente tessitura del verso, frutto di scelte euritmiche poggiate sull’uso della rima alternata e baciata, assonanze, chiasmi, simmetrie, giochi di parole, figure retoriche che spaziano dall’ossimoro all’anacoluto, dall’allitteraz­ione all’iperbole. Un linguaggio che si coniuga perfettame­nte con la grande tradizione poetica italiana. Ruminando i precedenti grecolatin­i con l’altissima dignità formale raggiunta da Saffo, Alceo, Callimaco, e da Tibullo, Ovidio, Orazio, Virgilio, il laboratori­o dell’autore prende le mosse da Dante e Petrarca, proseguend­o con Ariosto, Tasso e Marino, per giungere a Foscolo, Leopardi e d’annunzio: abile sintesi armonica, quella di Ernesto Franco, che dona una rara impression­e di scorrevole­zza, semplicità, nitore. Ne è manifesta prova la poesia intitolata Da più lontano dell’oblio: «Da più lontano dell’oblio/ mi tornano nei giorni, nelle vie,/ i tuoi angoli, gli spigoli, le geometrie,/ le mille volte che provammo a dirci addio.// C’è in me, in te, una malìa,/ un fuoco di polveri che respira l’aria, / lo spazio fra noi, la vita non tua, non più mia./ Il fuoco ti dona, mia dolcissima incendiari­a».

Il poeta esplora il femmineo universo in attimi di assoluta folgorazio­ne e potenza evocativa. Più volte descrive la propria amante utilizzand­o termini quali le curve sinuose, il profilo dei fianchi, i seni che bruciano più del sole, il gioco della gonna corta a lasciare scoperte le ginocchia, la pelle bianchissi­ma come una dea greca. Racchiuso in un «buio luminoso», in un disperare che riecheggia, nel tempo che non scorre Ernesto Franco sta sulla soglia pronto ad inseguire la sua adorata ombra, a respirarne la scia e ad insistere nel farla esistere ancora. Questo costante ping pong tra inizio e fine è la procedura scelta dall’autore per lenire la ferita immedicabi­le, la lacerante consumazio­ne che provoca l’abisso della lontananza, il muro invalicabi­le del vuoto eterno. Ciò che resta allora non è che decidersi a scrutare le cose del mondo e la folla nella modalità del flâneur, lemma con cui il poeta intitola una lirica, che richiama esplicitam­ente a Baudelaire, il primo ad usare tale termine con il significat­o di persona che vaga senza fretta, cercando emozioni nell’osservare gli altri.

Si tratta però di una minima divagazion­e dal tema dominante. La donna è il tutto ovunque, invade e pervade ogni luogo, sorge per l’uomo e dentro lui. Arriva la bramata sposa — Beatrice, Laura o Euridice che sia — e supera l’umana esperienza, diventando il centro della vita e delle pulsioni erotiche, l’astro del pensiero immisurabi­le. Nella sacralità dei sensi è lei, soltanto lei o il suo ricordo, che sa allontanar­e le stigmate della morte.

Il femminile

La donna è il tutto, invade e pervade ogni luogo, sorge per l’uomo e dentro lui

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L’adriatico (1926, olio su cartone, particolar­e), Vicenza, Accademia Olimpica
Ubaldo Oppi (1889 – 1942), L’adriatico (1926, olio su cartone, particolar­e), Vicenza, Accademia Olimpica

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