Canzoniere d’amore e d’assenza distillato in quarantasette schegge
Passione e potenza evocativa in «Donna cometa» (Donzelli), poemetto di Ernesto Franco
Una passione carnale, che non trova autentica pacificazione anche dopo l’estremo commiato. Anzi, si perpetua ostinatamente giorno dopo giorno nella smania di possedere un’ombra inafferrabile, che in ogni caso rimane misteriosamente accanto, miracolosa luce vivifica, di cui non si può fare a meno. Mentre si assapora il piacere di gioire soffrendo, nell’imago dei diversi intrecci corporali fra l’io poetante e l’oggetto del desiderio. Perché il vuoto è la crudele realtà, che si cerca di alterare con un impraticabile cambio di destino. Certo, solo la fantasia lirica riesce a trasporre in metamorfosi l’icona dell’amante, che proviene da un indistinto altrove, verso la vana speranza di osservare l’invisibile.
Confessando gli oscillanti stati d’animo personali, Ernesto Franco si nutre di ricordi vividi ma intangibili. Giunge persino ad implorare, pregare, evocare quella forma fantasmatica in perenne fuga nel poemetto Donna cometa (Donzelli). Un canzoniere d’amore e d’assenza ardente, suddiviso in 47 schegge che disegnano tappe di avvicinamento alla non celata visione di un’esistenza ad un certo punto franta, tuttavia condotta ancora assieme in due, nascosti nella propria binaria immagine traslante al momento della fine. Parziale addio grazie ad un escamotage dell’autore, che tramuta il loro legame concretamente dissolto in un incommensurabile cammino d’infinito. La necessaria fusione per proseguire oltre. Trasfigurazione del reale che va ad unire immanente e trascendente. Nonostante la consapevolezza che lo spazio e il tempo siano elementi di separazione ineluttabile di due corpi accoppiati da Eros e disgiunti da Thànatos.
Nato a Genova nel 1956, direttore editoriale di Einaudi, saggista, traduttore, romanziere, Ernesto Franco si esprime in poesia attraverso una sapiente tessitura del verso, frutto di scelte euritmiche poggiate sull’uso della rima alternata e baciata, assonanze, chiasmi, simmetrie, giochi di parole, figure retoriche che spaziano dall’ossimoro all’anacoluto, dall’allitterazione all’iperbole. Un linguaggio che si coniuga perfettamente con la grande tradizione poetica italiana. Ruminando i precedenti grecolatini con l’altissima dignità formale raggiunta da Saffo, Alceo, Callimaco, e da Tibullo, Ovidio, Orazio, Virgilio, il laboratorio dell’autore prende le mosse da Dante e Petrarca, proseguendo con Ariosto, Tasso e Marino, per giungere a Foscolo, Leopardi e d’annunzio: abile sintesi armonica, quella di Ernesto Franco, che dona una rara impressione di scorrevolezza, semplicità, nitore. Ne è manifesta prova la poesia intitolata Da più lontano dell’oblio: «Da più lontano dell’oblio/ mi tornano nei giorni, nelle vie,/ i tuoi angoli, gli spigoli, le geometrie,/ le mille volte che provammo a dirci addio.// C’è in me, in te, una malìa,/ un fuoco di polveri che respira l’aria, / lo spazio fra noi, la vita non tua, non più mia./ Il fuoco ti dona, mia dolcissima incendiaria».
Il poeta esplora il femmineo universo in attimi di assoluta folgorazione e potenza evocativa. Più volte descrive la propria amante utilizzando termini quali le curve sinuose, il profilo dei fianchi, i seni che bruciano più del sole, il gioco della gonna corta a lasciare scoperte le ginocchia, la pelle bianchissima come una dea greca. Racchiuso in un «buio luminoso», in un disperare che riecheggia, nel tempo che non scorre Ernesto Franco sta sulla soglia pronto ad inseguire la sua adorata ombra, a respirarne la scia e ad insistere nel farla esistere ancora. Questo costante ping pong tra inizio e fine è la procedura scelta dall’autore per lenire la ferita immedicabile, la lacerante consumazione che provoca l’abisso della lontananza, il muro invalicabile del vuoto eterno. Ciò che resta allora non è che decidersi a scrutare le cose del mondo e la folla nella modalità del flâneur, lemma con cui il poeta intitola una lirica, che richiama esplicitamente a Baudelaire, il primo ad usare tale termine con il significato di persona che vaga senza fretta, cercando emozioni nell’osservare gli altri.
Si tratta però di una minima divagazione dal tema dominante. La donna è il tutto ovunque, invade e pervade ogni luogo, sorge per l’uomo e dentro lui. Arriva la bramata sposa — Beatrice, Laura o Euridice che sia — e supera l’umana esperienza, diventando il centro della vita e delle pulsioni erotiche, l’astro del pensiero immisurabile. Nella sacralità dei sensi è lei, soltanto lei o il suo ricordo, che sa allontanare le stigmate della morte.
Il femminile
La donna è il tutto, invade e pervade ogni luogo, sorge per l’uomo e dentro lui