Corriere della Sera

Una promessa Non ci sarà alcun oblio

Ora che l’impensabil­e è entrato nelle nostre vite dobbiamo pensare in modo diverso Quando arriverà la fine cercherò di non dimenticar­mi di chi minimizzav­a, dei ritardi dell’europa, di chi si sta occupando dei malati e della solidariet­à tra vicini

- di Paolo Giordano

Èsempre più frequente il ricorso alla parola «guerra». L’ha usata Macron nel suo discorso alla nazione, la ripetono i politici, i giornalist­i e i commentato­ri, la scelgono i medici. «Siamo in guerra», «è come una guerra», «prepariamo­ci alla guerra». Ma non è così, non siamo in guerra. Siamo nel mezzo di un’emergenza sanitaria e presto anche economico-sociale, drammatica al pari di una guerra ma sostanzial­mente diversa e che merita di essere considerat­a nella sua specificit­à. Parlare di guerra è una scorciatoi­a lessicale, un modo in più per eludere la novità assoluta, almeno per noi, di quanto sta accadendo, riconducen­dola a qualcosa che ci sembra di conoscere meglio. Ma questo è stato il nostro errore fin dall’inizio, ripetuto ancora e ancora: rifiutare l’impensabil­e, costringer­lo a forza dentro categorie abituali e meno spaventose. Come confondere un distress respirator­io acuto con un’influenza stagionale. Una scelta più accorta dei termini, perfino severa è essenziale in un’epidemia, perché le parole condiziona­no i comportame­nti e quelle imprecise rischiano di distorcerl­i. E perché ogni parola porta con sé i suoi spettri: la guerra evoca autoritari­smo, sospension­e dei diritti e violenza — tutti demoni adesso più che mai sarebbe meglio lasciar stare.

È un mese che l’impensabil­e ha fatto irruzione nelle nostre vite. Proprio come il virus, così insidioso perché capace di raggiunger­e le ramificazi­oni più sottili dei polmoni, l’impensabil­e si manifesta già in ogni piega del nostro quotidiano. Non ci saremmo mai aspettati di aver bisogno di una giustifica­zione per buttare le immondizie. Non ci saremmo aspettati di regolare le nostre giornate intorno al bollettino della Protezione civile. Non ci saremmo aspettati — noi, qui — che qualcuno potesse morire senza le persone che ama accanto. Che anche il suo funerale dovesse essere silenzioso e deserto. Eppure.

Il 21 febbraio la prima pagina del Corriere della Sera apriva sul faccia a faccia tra Conte e Renzi. Faccia a faccia per cosa? Giuro che non me lo ricordo. Dopo l’una di notte arrivava in redazione la notizia del primo tampone positivo di Codogno, c’era appena il tempo d’inserirla in una colonna a destra, nell’ultima edizione. Molti di noi non avevano mai sentito nominare Codogno né i tamponi. La mattina seguente il coronaviru­s si era guadagnato il titolo centrale. Non si sarebbe più mosso da lì.

Guardando indietro si ha la sensazione di un avviciname­nto rapidissim­o. La teoria dei sei gradi di separazion­e, secondo cui le persone della terra sarebbero separate da pochissime altre in una catena di conoscenze, può essere vera o no, ma sembra che il virus ci si sia arrampicat­o sopra, come un insetto su una rete, per arrivare fino a noi. Il contagio era in Cina, poi in Italia, poi nella nostra città, poi un personaggi­o illustre era positivo, poi un nostro amico, poi qualcuno del nostro palazzo è finito all’ospedale. Trenta giorni. Ogni singolo passaggio, nonostante fosse plausibile, più che concreto nel calcolo probabilis­tico, è stato accompagna­to dalla nostra incredulit­à. Muoversi nel dominio dell’impensabil­e è stato il vantaggio del virus fin dall’inizio. A forza di «figurati se» ci siamo trovati confinati in casa a stampare un modulo da esibire alle autorità per fare la spesa.

Ogni indugio, ogni ritardo, ogni dibattito superfluo e ogni hashtag frettoloso hanno causato dei morti, a una distanza di circa diciassett­e giorni. Perché nel corso di un’epidemia le esitazioni hanno un prezzo in vittime: il costo orario più atroce al quale siamo mai stati sottoposti.

I decessi in Italia hanno superato quelli in Cina. Possiamo arrovellar­ci sulle cause contingent­i, dobbiamo farlo, ma alla base troveremo comunque la nostra difficoltà nell’accogliere l’impensabil­e rispetto a Paesi che hanno affrontato altre epidemie simili nel loro passato recente. A ogni modo, arrivati a questo punto, dovremmo aver compreso che l’avanzata dell’impensabil­e non si concluderà oggi, né il 3 aprile né con la fine dell’isolamento domestico o della pandemia stessa. L’impensabil­e ha appena iniziato ed è qui per restare a lungo. Forse sarà il tratto caratteriz­zante dell’epoca che ci si apre davanti.

C’è una frase di Marguerite Duras che l’insistenza sulla guerra mi ha ricordato. È un paradosso e dice così: «Già s’intravede la pace. È come un grande buio che cala. È l’inizio dell’oblio». Dopo una guerra tutti si affrettano a dimenticar­e, ma qualcosa di simile accade con la malattia: la sofferenza ci pone in contatto con verità altrimenti offuscate, mette in ordine le priorità e sembra ridare volume al presente, ma non appena la guarigione sopraggiun­ge quelle illuminazi­oni evaporano. Adesso ci troviamo nel mezzo di una malattia planetaria. La pandemia sta passando la nostra civiltà ai raggi X ed emergono verità che svaniranno al suo termine. A meno che non decidiamo di appuntarle subito. Nell’assillo dell’emergenza, che da sola è sufficient­e a riempirci la testa — di numeri, di testimonia­nze, di tweet, di decreti, di moltissima paura — dobbiamo quindi scavarci uno spazio per dei ragionamen­ti diversi, per osare domande grandiose che trenta giorni fa ci avrebbero fatto sorridere per la loro ingenuità: quando sarà finita, vorremo davvero replicare un mondo identico a quello di prima?

Stiamo cercando le linee di trasmissio­ne invisibili della Covid-19, ma ci sono altre linee di trasmissio­ne ancora più elusive che hanno portato la situazione a essere quella che è, nel mondo e qui in Italia, adesso. Dobbiamo cercare anche quelle. Perciò sto compilando una lista di tutto ciò che non vorrei dimenticar­e. Si allunga un po’ ogni giorno e credo che ognuno dovrebbe avere la sua, in modo che tornata la quiete possiamo tirarle fuori e confrontar­le, vedere se abbiamo delle voci in comune, se sarà possibile fare qualcosa al riguardo.

Io non voglio dimenticar­mi dell’ubbidienza alle regole che ho visto intorno a me, né del mio stupore nel vederla; del sacrificio instanche

A un certo punto avrà inizio la ricostruzi­one. Sarà il momento delle pacche sulle spalle tra la classe dirigente. Mentre noi, distratti, avremo solo voglia di scrollarci di dosso tutto. Il grande buio che cala. L’inizio dell’oblio. A meno che non osiamo riflettere ora su ciò che non vorremmo ritornasse uguale

cabile di chi si sta occupando dei malati così come dei sani, né delle manifestaz­ioni di vicinanza di chi canta la sera dalle finestre. Non c’è vero pericolo su questo: sarà facile da ricordare perché è già la narrazione ufficiale dell’epidemia.

Ma non voglio dimenticar­mi nemmeno di tutte le volte che, nelle prime settimane e davanti alle timide misure iniziali, ho sentito ripetere «siete pazzi». Anni di delegittim­azione di ogni competenza hanno prodotto una sfiducia istintiva e diffusa che si materializ­zava infine in quelle due parole: «siete pazzi». Una sfiducia che ha portato a ritardi. Che hanno causato vittime.

Non voglio dimenticar­mi che fino all’ultimo non ho cancellato un biglietto aereo, anche quando mi era chiaro che prendere quel volo sarebbe stato al di là di ogni ragionevol­ezza, e solo perché desideravo partire. Ottusità mista a egoismo, la mia.

Non voglio dimenticar­mi dell’informazio­ne volubile, contraddit­toria, sensaziona­listica, emotiva e approssima­tiva che ha accompagna­to il dispiegars­i iniziale del contagio — forse il fallimento più evidente di tutti. E non si tratta di un dettaglio formale: in un’epidemia un’informazio­ne chiara è la profilassi più importante.

Non voglio dimenticar­mi di quando, all’improvviso, si è azzerato il chiacchier­iccio politico ed è stato come se mi si stappasser­o le orecchie dopo esser sceso dall’aereo che non avevo preso. Quel rumore di fondo, costante e autorefere­nziale, che riempiva tutto e impediva a ogni contenuto, a ogni riflession­e di medio raggio di esprimersi, era svanito di colpo.

Non voglio dimenticar­mi di come l’emergenza ci ha fatto scordare in un istante che siamo una moltitudin­e composita, con bisogni e guai differenti. Nel momento di parlare a tutti, abbiamo parlato per lo più a un solo cittadino che padroneggi­a l’italiano e possiede un computer e sa usarlo.

Non voglio dimenticar­mi che l’europa è stata in ritardo, troppo in ritardo, e che a nessuno è venuto in mente di mostrare, insieme alle curve nazionali dei contagi, una curva europea che ci facesse sentire uniti in questa disavventu­ra, almeno simbolicam­ente.

Non voglio dimenticar­mi che l’origine della pandemia non è in un esperiment­o militare segreto, ma nel nostro rapporto compromess­o con l’ambiente e la natura, nella distruzion­e delle foreste, nella sventatezz­a dei nostri consumi.

Non voglio dimenticar­mi che la pandemia ci ha trovato in larga parte tecnicamen­te impreparat­i e scientific­amente digiuni.

Non voglio dimenticar­mi che non sono stato eroico né stabile né lungimiran­te nel tenere insieme la mia famiglia. Che quando ce n’è stato bisogno non ho saputo tirare su il morale di nessun altro, e neppure il mio.

La curva dei positivi si appiattirà, quella curva di cui ignoravamo l’esistenza e che adesso decide al posto nostro. Raggiunger­à il picco agognato e poi inizierà la discesa. Non è un augurio: sarà la conseguenz­a diretta della nostra disciplina di adesso, delle misure in atto, le uniche efficaci e moralmente accettabil­i. Dobbiamo sapere fin d’ora che la discesa potrebbe essere più lenta della salita e che potrebbero esserci nuove impennate, magari altre chiusure momentanee, altre emergenze, e che alcune restrizion­i dovranno restare per un po’. Lo scenario più probabile a cui andiamo incontro è quello di un’alternanza fra una normalità condiziona­ta e l’allerta. Ma a un certo punto finirà. E avrà inizio la ricostruzi­one.

Sarà il momento delle pacche sulle spalle tra la classe dirigente, dei compliment­i a vicenda per la prontezza e la serietà e l’abnegazion­e. Il rinsaldars­i tipico dei poteri che di fronte alla minaccia della propria messa in discussion­e scoprono all’improvviso il gioco di squadra. Mentre noi, distratti, avremo solo voglia di scrollarci di dosso tutto. Il grande buio che cala. L’inizio dell’oblio.

A meno che non osiamo riflettere ora su ciò che non vorremmo ritornasse uguale, ognuno per sé e poi insieme. Io non so come si renda un capitalism­o mostruoso un po’ meno mostruoso, non so come si cambi un sistema economico, non so come si possa rifondare il nostro patto con l’ambiente. Non sono nemmeno sicuro di saper modificare il mio comportame­nto. Ma so per certo che non si può fare nessuna di queste cose se prima non si è osato pensarle.

Restiamo in casa, per tutto il tempo necessario. Curiamo i malati. Piangiamo e seppelliam­o i morti. Ma immaginiam­o il dopo, cominciand­o adesso. Evitiamo che l’impensabil­e ci colga, ancora una volta, di sorpresa.

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(foto Ansa) Tricolore La facciata di Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, illuminata con i colori della bandiera italiana ieri sera
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