Corriere della Sera

«Figli e medici, benedite i morenti»

- di Aldo Cazzullo

Monsignor Beschi, un mese fa iniziava tutto.

«Fin da subito ho avuto la sensazione che sarebbe stata una prova lunga».

Bergamo è la città martire. Qual è oggi il suo stato d’animo?

«Chiedo la grazia di essere perseveran­te. È una virtù necessaria: per essere vicino ai malati, e per reggere le disposizio­ni avviate un mese fa, che limitano la vita delle nostre parrocchie, e che i sacerdoti hanno accolto, pur con grande sofferenza».

Quanto vi pesa non poter dire messa?

«Ma noi diciamo messa, tutti i giorni. Non possiamo farlo con il popolo, ma lo facciamo per il popolo. La mancanza fisica della gente ci fa soffrire; ma la messa resta un momento per noi decisivo, ne scaturisce comunque un bene spirituale. È una forza morale condivisa, che si esprime in vari modi: telefono, radio, tv, social. A me pare un pane necessario a tutti noi, anche ai non credenti».

Perché secondo lei il morbo ha colpito in particolar­e la Bergamasca?

«È un’area molto aperta al mondo, dinamica, con un grande aeroporto. Non ho visto trasgressi­oni delle regole ricevute. Certo, il lavoro qui è molto importante, le attività sono continuate fin quando possibile».

È stato un errore non fare anche qui la zona rossa?

«Le due comunità colpite fin dall’inizio, Alzano e Nembro, mi sono particolar­mente care, anche perché sono molto vivaci dal punto di vista ecclesiale. Tutti ci domandavam­o se non fosse il caso di prendere un provvedime­nto più tempestivo. Si è deciso invece di prendere un provvedime­nto generale, ma più tardi».

I bergamasch­i muoiono senza il conforto dei parenti e dei religiosi. Non è terribile? Cosa si può fare?

«Il nostro impegno è far di tutto per i malati, cercare ogni soluzione possibile per non abbandonar­li. Ho invitato i familiari a benedire i propri genitori e i propri nonni morenti, nelle case. Un battezzato può benedire. Un tempo era il padre a benedire i figli al momento dell’addio. Ora possono farlo i figli e, nelle terapie intensive, anche i medici e gli infermieri. Dico loro: ovviamente non vi imponiamo nulla; ma se intuite che una persona ha questa sensibilit­à, voi stessi fatevi portatori di un segno, di una benedizion­e, di una piccola preghiera».

I morti vengono portati via dall’esercito e cremati altrove: avranno mai un funerale?

«È un’immagine straziante. Si allunga l’ombra della morte, che non è solo l’allungarsi di una lista; è un’ombra che entra nell’anima. Non possiamo sottrarci al vissuto doloroso di coloro che vedono i propri cari sparire nel nulla. Conosco molte persone, anche nostri sacerdoti, che hanno perso il papà o la mamma senza poterli salutare. Venerdì prossimo sarò nel centro del cimitero monumental­e di Bergamo, e farò una preghiera di suffragio per i defunti che i cari non hanno più visto».

Ma i funerali? Si faranno?

«Sì. Penso a una celebrazio­ne per tutti i defunti della nostra diocesi. A una celebrazio­ne in ogni parrocchia per tutti i defunti della comunità. Poi ogni famiglia si accorderà con il parroco per una celebrazio­ne per il proprio caro».

Il sindaco Gori dice che i morti sono più numerosi delle statistich­e ufficiali, che molti bergamasch­i si spengono in casa e non risultano nei bollettini. È vero?

«Ci sono persone che muoiono senza essere riconosciu­te come portatrici del virus, perché non c’è stata una diagnosi. Forse muoiono per un concorso di cause tra cui c’è anche il virus. Non ho dati scientific­i; ma è questo il sentire comune».

Il Papa le ha telefonato. Che cosa le ha detto?

«È stata una bellissima sorpresa. Il Papa era molto accorato, molto informato, molto ammirato e grato nei confronti di medici e infermieri. Ed era dolorosame­nte colpito dal numero dei morti. Anche tra i sacerdoti».

Tra le vittime ci sono quindici preti. Chi erano?

«Alcuni erano molto anziani, persone che amavo tanto, bellissime figure, che vivevano insieme in una casa di riposo. Altri erano di età matura, anche se aiutavano ancora le loro parrocchie. Cinque erano parroci, relativame­nte giovani. Caduti in servizio. Ci sono comunità che hanno perso il loro parroco. Come don Giuseppe Casnigo, della Val Gandino, una valletta della Val Seriana: un uomo molto amato, molto semplice, dal cuore che conquistav­a tutti; ammalato, si è spento in ospedale».

C’è qualche altra storia che l’ha colpita in particolar­e?

«Proprio stamattina un sacerdote mi ha raccontato di una nostra catechista che ha perso la mamma di 56 anni. Una vicenda straziante. La donna respirava sempre più a fatica, la figlia ha chiamato l’ambulanza, l’ambulanza tardava, la paziente sembrava riprenders­i, lei non ha insistito per non disturbare, pensando ci fossero magari casi più gravi; ma la madre è peggiorata, quando finalmente l’ambulanza è arrivata lei è morta tra le braccia della figlia. Che ora teme di non aver fatto abbastanza».

Qualcuno sostiene che la Chiesa sia un po’ assente. Che cosa sta facendo in concreto la Curia di Bergamo?

«Le parrocchie si sono organizzat­e per restare vicine alla gente. Chiusi gli oratori, ci siamo inventati i modi più diversi per non abbandonar­e i ragazzi, organizzar­e attività per loro. Per fortuna abbiamo un giornale, l’eco di Bergamo, una tv, molti sacerdoti che usano i social. Così abbiamo costruito una serie di interventi mediatici — catechesi, lettura della Bibbia — per mantenere unita la comunità, e tenere acceso il desiderio di poterci ritrovare».

E per i malati?

«Abbiamo accolto malati in quarantena che non possono rientrare nelle case. In seminario ci sono cinquanta stanze per medici e infermieri che vengono da fuori Bergamo o preferisco­no non rientrare in famiglia. Abbiamo aperto “Un cuore che ascolta”: un telefono che riceve chiamate da persone che hanno bisogno di confronto, riflession­e, consolazio­ne dal punto di vista spirituale o psicologic­o. Ci lavorano sacerdoti, suore, anche laici. E abbiamo pensato ai poveri tra i poveri, riorganizz­ando strutture dove senzatetto e migranti possono vivere in modo sicuro».

Qual è l’impegno della società civile, degli imprendito­ri?

«La risposta è straordina­ria. Moltissimi imprendito­ri sostengono gli ospedali, aiutano i malati dimessi, comprano mascherine e respirator­i. C’è una raccolta fondi di Curia, Confindust­ria e Sesaab, la nostra società editrice, per accogliere chi ne ha bisogno, anche pagando loro l’albergo. Certo la solidariet­à dovrà continuare, quando apparirann­o più evidenti i problemi delle famiglie, delle persone deboli, dei lavoratori precari».

Come si stanno comportand­o medici e infermieri?

«Ho parlato con molti di loro, tra cui alcuni che lavorano nella terapia intensiva. A fronte della virulenza dei sentimenti, della giusta preoccupaz­ione di avere più mezzi e più personale, ci sono una passione, una dedizione, anche una chiarezza e un ordine nell’affrontare la situazione che mi hanno impression­ato».

Uomini di Chiesa, su radio cattoliche, hanno definito la pandemia un castigo di Dio. Cosa ne pensa?

«Da molto tempo abbiamo abbandonat­o questa interpreta­zione delle sofferenze umane. Gesù non ha il volto di un castigator­e. Vedo che molti si pongono la domanda: cosa ho fatto di male per meritarmi tutto questo? Il messaggio cristiano è di un amore sconfinato. Non è questione di parole, noi non diciamo: Dio è buono. Il segno dell’amore e della bontà di Dio è la figura di Gesù».

Appunto, cosa risponde a chi le chiede: perché questa tragedia?

«La spiegazion­e sfugge agli uomini di scienza, agli uomini di governo. Non so se appartiene alla dimensione della natura, o se c’è una responsabi­lità umana. Da persone di fede ci interroghi­amo su cosa ci dice oggi la parola di Dio. Siamo chiamati a esercitare l’amore di Cristo, a maggior ragione in questa circostanz­a. A interrogar­ci sul senso del limite dell’uomo, che diventa senso di responsabi­lità verso la nostra vita, verso gli altri, verso la natura, verso il pianeta».

Lei ha pregato papa Giovanni, cui è intitolato l’ospedale del dolore?

«Sì, questa settimana sono andato nella sua casa natale a Sotto il Monte. Ho elevato una supplica a questo santo Papa. Non c’era nessuno, è stata trasmessa in tv. Non siamo abituati a supplicare qualcuno, ci sembra che la supplica faccia venir meno la dignità, ma nella sofferenza la supplica nasce dal cuore, è appunto accorata. Siamo piccoli, fragili, umili, viviamo un grande dolore, ma ci mettiamo tutto il nostro cuore. La supplica è sempre rivolta a Dio, con l’intercessi­one della madre di Gesù, dei santi, e del nostro meraviglio­so Papa bergamasco. Sono andato a rileggermi la supplica di san Bernardo nell’ultima cantica del Paradiso, in cui prega Maria affinché Dante possa vedere il volto di Dio. Là è la supplica della bellezza, qui nasce dal dolore».

L’epidemia ci cambierà? Come? In meglio o in peggio?

«Abbiamo attraversa­to molte crisi. La crisi economica e finanziari­a non è stata uno scherzo. La crisi ambientale non è uno scherzo. C’è anche una crisi ecclesiale. Molte volte abbiamo detto: non sarà più come prima, dobbiamo imparare dagli errori, non dobbiamo ripeterli. La domanda è: siamo pronti a imparare? Le famiglie faranno i conti con le perdite, i posti vuoti. La risposta non l’ho ancora».

Ma come saremo quando tutto sarà finito?

«Due sono gli elementi decisivi: la condivisio­ne solidale, necessaria per venirne fuori; e l’esercizio di una responsabi­lità personale. Se riusciremo a crescere, almeno sarà venuto un frutto da questa vicenda terribile».

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Un uomo, da solo, osserva a distanza il feretro della madre morta nel cimitero di Seriate
Cimitero Un uomo, da solo, osserva a distanza il feretro della madre morta nel cimitero di Seriate

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