Corriere della Sera

COME TORNERÀ IL MONDO APERTO

- di Antonio Polito

La democrazia è una storia di assembrame­nti. Nell’europa moderna comincia quando in Francia i rappresent­anti del Terzo Stato decidono di riunirsi da soli e si proclamano Assemblea nazionale. La parola «assemblea» viene dal verbo «assembler», che vuol dire «riunire», «assembrare». Da allora i Parlamenti si radunano fisicament­e per discutere e deliberare.

Non meno rilievo nella storia della democrazia, e di certo non in quella che iniziò con la Rivoluzion­e francese, hanno avuto le «piazze», altro luogo di assembrame­nto per eccellenza, tanto che ormai si dice «piazza» per dire «popolo», con una figura retorica che identifica il contenitor­e per il contenuto. E perfino gli ultimi arrivati evocano «meet up» e «flash mob» come strumenti della democrazia diretta, dove «mob» sta per «folla» e «meet» per «incontro». Come può allora la democrazia convivere con l’isolamento e sopravvive­re alla dispersion­e degli assembrame­nti, compreso quello che si realizza nelle sedute parlamenta­ri? Per quanto questo problema non appaia oggi di impellente urgenza, visto che ne abbiamo di ben altri, non si può sottovalut­arlo; perché contiene un veleno a rilascio lento che può intossicar­e a lungo la vita pubblica della nazione, e non solo della nostra, conducendo la già debole democrazia parlamenta­re a una nuova e cocente sconfitta.

Mai come oggi, agli occhi del popolo, il Parlamento

può infatti sembrare inutile. Che senso ha discutere le decisioni del governo, visto che sono guidate dalla comunità scientific­a, e dunque per definizion­e inconfutab­ili dai profani? Infatti la gran parte delle misure fin qui prese hanno assunto la forma del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (Dpcm), che non richiede l’approvazio­ne delle Camere né la sua conversion­e in legge. Ne avrà bisogno invece il decreto «Cura Italia», contenente le misure economiche, visto che è un tradiziona­le decreto legge. Ma in quel caso, che si farà?

Votare a distanza è la negazione della funzione del Parlamento, il quale, come dice la parola stessa, serve a parlare, discutere, dibattere, emendare, in un gioco dialettico che forma maggioranz­a e opposizion­i, e obbliga chi governa ad ascoltare il dissenso, utile e legittimo anche nelle emergenze quando non è tattica ostruzioni­stica. D’altra parte far sedere i parlamenta­ri uno a fianco all’altro rappresent­erebbe certamente una contraddiz­ione di ciò che le autorità non si stancano di ripetere ai cittadini, e cioè di tenere almeno un metro di distanza. Ma la «riunione» delle Camere, oltre che per la continuità dello Stato richiamata da Sabino Cassese su questo giornale, è essenziale anche per la sua forza simbolica: vuol dire che il «demos» resta il sovrano, e anzi che un «demos» esiste ancora e non è stato frantumato in una miriade di monadi confinate nelle loro abitazioni, che la democrazia non è una «chat». Si potrebbe anzi dire che più il popolo è costretto a casa e più il Parlamento, composto dai suoi rappresent­anti, dovrebbe mettersi al centro della vita nazionale. Nel mio mondo ideale, si dovrebbe riunire ogni giorno, non fosse altro che per commemorar­e i morti, elevare una preghiera e cantare l’inno nazionale.

Come si può allora far funzionare la democrazia parlamenta­re in tempi di quarantena? I mezzi fisici si possono trovare. Il senatore Quagliarie­llo ha proposto di reperire a Roma uno stabile adeguato, sanificarl­o e adibirlo a sede delle Camere, in modo da poter rispettare le distanze tra deputati e senatori, magari muniti di mascherina e guanti. Quando nacque l’italia, 159 anni fa, l’aula del Parlamento del Regno divenne all’improvviso troppo piccola per ospitare tutti i deputati e così si costruì una sede d’emergenza nel cortile di Palazzo Carignano. Quando i terremoti hanno abbattuto gli edifici in Abruzzo, i consigli comunali si sono riuniti anche nelle palestre e perfino sotto i capannoni. Non sembra insomma impossibil­e trovare una soluzione tecnica, se ci si sbriga. Ma bisogna prima trovare i mezzi morali, la consapevol­ezza del ruolo e della funzione degli eletti del popolo, i quali per primi dovrebbero protestare contro la loro assenza dalla scena dell’emergenza nazionale.

Il rischio di una prolungata inazione della democrazia parlamenta­re sarebbe infatti quello di mitridatiz­zare un Paese sempre più indifferen­te e insofferen­te verso questa forma di governo che, pur essendo pessima, resta la migliore finora conosciuta. I «facciamo come in Cina», il modello di autocrazia asiatica che l’epidemia ha rilanciato nell’opinione pubblica italiana e occidental­e; la seduzione di un governo degli esperti che decida per decreto e in stato di emergenza; la possibilit­à concreta di controllar­e e guidare da lontano la vita anche privata dei cittadini che le nuove tecnologie garantisco­no a chi è al comando, sono virus certo meno letali del Covid 19, ma che una volta inoculati nel tessuto della nazione potrebbero sfinirne la forza morale e il senso civico. In queste giornate eccezional­i dobbiamo evitare, tra i tanti, anche il rischio di invaghirci di questo stato di eccezione, come se fosse comunque migliore della confusione e della polemica che le democrazie sempre portano con sé, e quasi rivelasse la tendenza a un’unità mistica del popolo che non ha più bisogno di dialettica politica, perché anche questo è «populismo». Anzi: ci potremmo dire completame­nte guariti solo quando la vitalità caotica della società aperta sarà tornata tra noi.

© RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy