La democrazia si trasforma: servono i partiti
La democrazia non sta morendo, come hanno diagnosticato i due studiosi di Harvard Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, e neppure si sente così male. Sta solo attraversando un delicato periodo di trasformazione, da gestire con la guardia alta ma senza credere che tutto sia perduto. La vede così Nadia Urbinati, nel suo ultimo saggio sull’espansione mondiale del populismo (Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia, il Mulino, pp. 339,
24), aggiungendo una voce rassicurante al panorama catastrofista della saggistica sull’argomento.
Tutto nasce dalla promessa mancata del sistema rappresentativo, che ha visto i partiti e la politica arroccarsi in un fortino inaccessibile ai cittadini. In questa crepa tra eletti ed elettori, scrive Urbinati, si è insinuato il populismo, che individua nel potere una colpa e promette di ridare voce al popolo. Ma che cosa succede se l’outsider vince le elezioni e diventa egli stesso parte dell’establishment? Ecco che sviluppa una tecnica che lo mimetizza, continua ad attaccare i partiti, la stampa, la burocrazia, entra in una perenne campagna elettorale che gli evita di confondersi con il blocco di potere anche ora che il potere è lui.
Questa tecnica finisce per sfigurare la democrazia. Perché il popolo rappresentato dai populisti, scrive Urbinati, non è l’insieme dei cittadini, ma soltanto una parte, nel nome della quale si prendono le decisioni calpestando le minoranze. L’ingrediente essenziale della democrazia rappresentativa, scriveva Hans Kelsen, è il compromesso, grazie al quale le leggi, approvate a maggioranza, tengono conto però delle istanze delle opposizioni. I populisti avversano il compromesso, lo considerano alla stregua della corruzione. Il «popolo vero», la parte di popolo che sostiene il populista, prende tutto, senza lasciare agli altri nulla.
La rappresentanza cambia così natura, diventa un atto di fede e di identificazione emotiva con il leader forte tipico dei movimenti sovranisti. Ma come fa il popolo a sentire come suo un capo che spesso è miliardario come Trump? Il nemico, chiarisce Urbinati, non è l’élite dell’economia, ma è l’élite del potere, soprattutto la partitocrazia. Il leader populista, anche se ricco, si presenta come un outsider, dice cose fuori dal coro, detesta ad esempio gli intellettuali e alla competenza preferisce la bontà dei valori morali semplici della «gente».
Rispetto al politologo olandese Cas Mudde, che ha dato la più fortunata definizione di populismo come «ideologia esile», caratterizzata dalla contrapposizione tra popolo ed élite, ma avara di contenuti sul che cosa fare e perché, Urbinati vede nei movimenti sovranisti qualcosa di molto più strutturato e pesante, con un suo sistema di valori al quale conformare la nazione laddove ad esempio esalta la necessità di difendere la «brava gente» dall’«invasione» dei migranti. La critica a Mudde ricorre in più punti del libro. Secondo la politologa italiana, la thin ideology è in grado di spiegare il fenomeno sovranista quando esso si trova all’opposizione, non quando raggiunge il potere.
E, una volta al governo, il populismo sfigura la democrazia, pur non annientandola. Urbinati è rassicurante, dunque, ma non nega i problemi. E offre anche la sua soluzione. Perché se all’origine di tutto c’è la crisi dei partiti, soprattutto di sinistra, sempre più focalizzati sulla difesa di chi è già protetto, è dai partiti che bisogna ricominciare, aprendoli alla partecipazione e ai cittadini.
● Tra i contenuti del nuovo numero dell’inserto, un inedito di Daniele Del Giudice (Roma, 1949; nella prima foto qui sopra) su Totò e il senso del limite. L’inserto si chiude con un racconto dell’autore scozzese Stuart Macbride (Dumbarton, Regno Unito, 1969; nella foto qui sopra). Nell’inserto anche un articolo di Alberto Casadei sulle opere narrative che possiamo definire «epiche» oggi