Corriere della Sera

IL DOVERE DI ESSERE CHIARI

- di Sabino Cassese

Inostri governanti hanno davanti scelte difficilis­sime. Debbono tener conto di un fenomeno di cui non si conosce la progressio­ne e la durata. Debbono, da un’ora all’altra, decidere se milioni di persone possono uscire da casa. Debbono farlo tenendo conto sia della emergenza sanitaria, sia della emergenza economica che i loro stessi provvedime­nti producono.

D ebbono ascoltare Regioni e Comuni, che fanno la voce grossa. Sono, inoltre, per lo più, alle prime armi (la signora Merkel — per fare un paragone — è stata per più di dieci anni parlamenta­re, per tre ministro e ora per quindici cancellier­e).

Sono comprensib­ili, quindi, le loro esitazioni. È comprensib­ile — ma non giustifica­bile — l’avere scelto la strada sbagliata di creare in fretta e furia un nuovo diritto dell’emergenza sanitaria, uscendo dai binari delle leggi di polizia sanitaria già esistenti, a partire dalle norme della Costituzio­ne sulla profilassi internazio­nale fino a quelle del Servizio sanitario sulle epidemie e al testo unico delle leggi sanitarie.

Non si comprende, invece, perché i nostri governanti continuino a scrivere proclami così oscuri. L’ultimo decreto del presidente del Consiglio dei ministri, annunciato in television­e la sera del 21 marzo, firmato la sera successiva ed entrato in vigore il giorno dopo, contiene, nella parte dispositiv­a, 864 parole e ben dieci rinvii ad altri decreti, leggi, ordinanze, codici, protocolli. A Palazzo Chigi pensano che tutti gli italiani siano dotati di una raccolta normativa completa, incluse le ordinanze?

Bernini e Borromini, poi, sarebbero ammirati del barocchism­o della costruzion­e del decreto. È disposto il fermo di tutte le attività, salvo quelle che è consentito proseguire (indicate in un elenco allegato), quelle che sono funzionali ad esse e ai servizi di pubblica utilità ed essenziali (ma queste ultime con qualche eccezione e salvo contrordin­e del prefetto), quelle di impianti a ciclo di produzione continuo (salvo contrordin­e del prefetto), quelle aerospazia­li e di rilevanza strategica (previa autorizzaz­ione del prefetto).

Il provvedime­nto, infine, consente di allargare o restringer­e l’elenco delle attività sospese, con decreto del ministro dello Sviluppo economico, d’intesa con quello dell’economia, e contiene una clausola finale secondo la quale «resta consentita ogni attività comunque funzionale a fronteggia­re l’emergenza» (chi le individua?).

Si aggiunga che anche presidenti di Regioni e sindaci si sono dedicati all’arte dei proclami (che riguardano anch’essi circolazio­ne, riunioni, lavoro), e che l’hanno fatto anche ministri. Per esempio, i ministri della Salute e dell’interno hanno firmato il 22 marzo una ordinanza che vieta il trasferime­nto o spostament­o in Comuni diversi da quelli in cui i cittadini si trovano, norma contenuta anche nel decreto del presidente del Consiglio di pari data, ma entrata in vigore il giorno dopo («repetita juvant», pensa evidenteme­nte il governo).

I genitori che, in questi giorni (e non sappiamo per quanto tempo ancora), nelle pause dello «smart working», debbono preoccupar­si dei compiti dei figli e programmar­e le uscite e le attese per comprare da mangiare; chi deve andare al lavoro e non sa se la sua impresa o il suo ufficio sospende l’attività oppure no; chi deve portare fuori il cane e non sa quanto può allontanar­si dalla sua abitazione, avrà il tempo di procurarsi tutte le norme, leggerle, porle a raffronto, consultare un avvocato, per decidere cosa fare?

Il 9 agosto 1940 Churchill firmò dal Gabinetto di guerra, al numero 10 di Downing Street, un documento di una pagina, intitolato «Brevity», che elencava in quattro punti come dovessero essere scritti i documenti governativ­i. Se non si vuole attraversa­re la Manica, si può leggere il «codice di stile» delle amministra­zioni pubbliche, prodotto nel 1994 dal ministero della Funzione pubblica. Un rapido esame di uno di questi testi potrebbe insegnare qualcosa a coloro che scrivono e a quelli che firmano decreti, ordinanze e leggi. È il «minimo sindacale» che il popolo può aspettarsi dall’«avvocato del popolo»: siate chiari, almeno questo possiamo chiederlo.

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