Il suonatore della lingua
1930-2020 Narratore, viaggiatore, lettore enciclopedico, riversò nella scrittura tutte le sue (infinite) passioni
Scrittore, giornalista, poeta, critico teatrale e politico. Alberto Arbasino è morto a 90 anni.
«Scrivo perché mi è sempre piaciuto suonare la lingua italiana, come c’è chi ama suonare il pianoforte, o comporre per voci e strumenti solisti e orchestra». C’è molto Arbasino in questa dichiarazione, che risale al 1989. La lingua e la musica sono Leitmotiv intrinseci non solo all’opera dello scrittore, scomparso domenica a novant’anni, ma al suo stesso carattere intellettuale. Va detto che la sua erudizione irregolare e a tratti delirante (come lui stesso amava definirla) finì per aprirsi a 360 gradi su tutto lo scibile umanistico: la letteratura alta e bassa, la musica colta e popolare, il teatro, il cinema di ogni latitudine, le scienze sociali… Con allusioni, citazioni, riferimenti che attingono a ogni deposito di cultura. Per questo, in virtù di una capacità virtuosistica di ibridazione e contaminazione, si è parlato di «scrittura infinita», di inesauribile «banca-dati verbale», di «registrazione per accumulo».
Eppure non si può negare che l’instancabile curiosità, che si è esercitata ovunque, in qualunque campo e in qualunque registro, è riuscita quasi per miracolo a proporsi in lunghi anni con una coerenza che, come ha segnalato Clelia Martignoni, non sempre forse è stata sottolineata a dovere. Infatti quella che giustamente appare come una produzione proteiforme, che non cessa di confrontarsi col mutare dei contesti dal boom economico in poi, può anche essere osservata nella sua unità. Prendendo le mosse da una mentalità antropologica o di «critica della cultura», quest’unità si esprime in una forma di narrazione-saggio, insieme di testimonianza e analisi spregiudicata, onnivora, imprevedibile, che si estende dalla brevità del corsivo o della lettera alla misura sterminata. Per esempio, nei cosiddetti «romanzi-conversazione» (primo tra tutti Fratelli d’italia) continuamente scritti e riscritti (Arbasino è re delle riscritture), in quanto concepiti come contenitori senza fondo in cui rovesciare le molteplici esperienze biografiche e intellettuali: intrecci erotici (omosessuali), divagazioni critico-artistiche, incontri, appunti di viaggio, satira del costume sociale.
Il genio di Alberto Arbasino non si accontenta mai di sé, né sul piano degli spunti o delle analisidiagnosi né sul piano delle sempre cangianti coloriture stilistiche: ciò è particolarmente visibile nelle forme mobili che prende l’ironia, tra parodia, umorismo lieve, satira, grottesco, gioco verbale, snobismo graffiante. E le varie sfumature di un’ironia allusiva e sofisticata a volte fino all’oscurità caratterizzano anche l’arbasino scrittore civile, che va a colpire le classi dirigenti italiane (Arbasino fu deputato indipendente nelle liste repubblicane dall’83 all’87), i ceti intermedi, le classi subalterne, con interventi più mirati (In questo Stato è dedicato a Moro e ai giorni del sequestro) e valutazioni politiche trasversali, come in Un paese senza del 1980, perorazioni di «ideologo riformatore» sempre però ben lontane dalle «generiche lamentazioni» degli umanisti italiani, che vedeva come il fumo negli occhi.
«Self made man di origini decadenti», nato a Voghera nel 1930 e, come diversi suoi quasi coetanei cresciuti in provincia, «rinato» a Roma nel 1957, in una delle sue frequenti autodefinizioni si associava a quei pochi italiani che ebbero la «tentazione di vivere come se». Come se: «come se abitassimo una società civilissima, illuminata e cosmopolita, di spiriti forti», alieni al piagnisteo e alla pesantezza, interessati alla cultura, alla lettura e alla letteratura senza secondi fini, agli spettacoli di qualità, magari anche al buongoverno… E nella stessa occasione elencava le sterminate letture giovanili: ovviamente i romantici tedeschi e francesi, ovviamente i poeti latini, ovviamente gli inglesi anni Trenta, ovviamente il Settecento inglese, francese e lombardo, ovviamente di tutto già durante gli studi universitari a Pavia e a Milano, in diritto internazionale, con divagazioni nelle scienze naturali, nel melodramma, nella psicologia, nella storia.
La divagazione era una delle sue arti e dei suoi talenti. Non solo dentro la scrittura ma nella vita. Tant’è vero che il suo personale Gran Tour lo porta prima alla Sorbona, a Londra per seguire centinaia di ore di teatro, all’accademia di diritto dell’aia, nei musei del Novecento tedesco, in America alla fine degli anni Cinquanta, nei seminari politici a Harvard con Kissinger, poi a Manhattan per vedere il bello e il brutto di Broadway, la robetta e la robaccia, su cui comincia a scrivere corrispondenze per i grandi settimanali e quotidiani, «Tempo Presente», «Il Mondo», «Illustrazione Italiana», «Giorno», «Corriere d’informazione»,