Ritratti e battute del gran solista che inseguiva una vera modernità
L’ironia serviva per registrare il carattere della nazione e i suoi cambiamenti, non per umiliare
«Espresso», avviandosi così nella attività giornalistica che lo terrà occupato per una vita portandolo ovunque nel mondo («la Repubblica» è stata, dopo il «Corriere della Sera», l’ultimo approdo). Suoi «maestri veri» furono: Carlo Emilio Gadda in primis (l’«ingegnere in blu» del suo libro più popolare), Roberto Longhi, Aldo Palazzeschi, Giovanni Comisso, Luciano Anceschi. E se la sua era una generazione per la quale l’ammirazione verso i maestri era determinante, fondamentale era anche il sodalizio dei coetanei. E per Arbasino fu importante l’incontro con gli amici della neoavanguardia (Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, Giorgio Manganelli, Alfredo Giuliani, Angelo Guglielmi, Nanni Balestrini, Luigi Malerba…), alla quale viene assimilato pur mantenendo una cifra non comparabile con altre esperienze. Ma il suo nome diventò bandiera del Gruppo 63 quando Giorgio Bassani, editor della Feltrinelli, si rifiutò di pubblicare Fratelli d’italia nella sua collana (dove peraltro erano già usciti di Arbasino L’anonimo lombardo e Parigi o cara). Giangiacomo Feltrinelli decise di far uscire il romanzo in un’altra collana all’insaputa di Bassani, che venne accusato dall’editore di spionaggio editoriale a vantaggio di Einaudi. Il gossip culturale narra che il culmine del dissidio fu toccato allorché l’editore, in una domenica d’estate, fece irruzione negli uffici romani di Piazza Esedra per forzare i cassetti di Bassani alla ricerca di prove del tradimento. Che non furono trovate, e la controversia finì in tribunale. Arbasino avrebbe commentato con la sua erre rotante: «Dal suo punto di vista, Bassani non aveva torto: “Non è un romanzo, è un collage di pezzi di giornali”. Giusto, forse l’operazione strutturale non si scorgeva ancora chiaramente, con la destrutturazione terminale in “frammenti” che rimettono in causa la trama, però circolarmente ricollegano il Finale al Principio». La consapevolezza del narratore era somma. L’aplomb aristocratico pure.
Ècome se Alberto Arbasino ci avesse accompagnato alla frontiera di Chiasso per farci leggere un po’ di testi stranieri, ma per poi ritornare in Italia con qualche raffinato strumento per capirli di più, gli italiani. Per capirne, come scriveva sempre, «i corsi e i ricorsi storici», le «costanti antropologiche», i fantasmi che tornano, i tic, le manie, «piccinerie, meschinità, bassezze», i crampi ideologici, le Cavalline Storne, il «prima la trippa», il gusto del tradimento, dell’imboscata, dell’agguato, la «fraseologia superficiale» e conformista delle «torri d’avorio» e negli anni Ottanta «il giovane Armani e l’editore Adelphi hanno finito per sconfiggere quasi da soli i vecchioni Mao e Marcuse, trasferendo l’immaginario del popolo giovanile dal Vietnam verso Vuitton». Gli italiani, il loro sciocchezzaio, i loro errori, le abitudini radicate, i costumi, la mentalità, il lessico, sono stati l’ossessione di Arbasino e Fratelli d’italia, il suo monumento, non poteva che intitolarsi così, il romanzo interminabile e interminato che ha conosciuto l’inizio nel 1963 per poi rimodellarsi incessantemente nei decenni, è stato come lo Zibaldone di Giacomo Leopardi, un discorso continuo sugli italiani e sull’italia. Sul suo melodramma, su ogni angolo della Penisola, sulle miserie della cultura, del teatro, del cinema, dell’arte, dell’industria.
Che cos’era quella di Arbasino, letteratura o saggistica? Romanzo saggistico? Saggio narrativo, racconto analitico, analisi letteraria? Era tutto insieme per capire come siamo fatti nel profondo e in ciò che ci sembra più fatuo, nella «casalinga di Voghera» o nel Michelangelo Antonioni, il regista riverito che «accetta solo giudizi dall’entusiastico in su».
La forza di Arbasino era di saper connettere le idee almacchina l’immaginazione. I suoi Ritratti italiani ne sono l’esempio formidabile e più riuscito. Una carrellata di personaggi, di scrittori, di editori, attori e attrici, ognuno con un dettaglio che solo un grande scrittore riesce e cogliere e a fissare, ognuno come incarnazione di un atteggiamento che è anche un’idea, come se per Arbasino storia e aneddoti, idee ed emozioni, letteratura e musica, saggistica e fiction fossero un tutt’uno. Come questo dettaglio del ritratto di Gianni Agnelli, strepitoso: «Quando ancora non esistevano i telefoni sulle automobili, l’avvocato chiamava dalla i telefoni fissi degli amici. Ma quando finalmente un emulo giunse a possederne uno, chiamò subito Gianni da una macchina all’altra. E si sentì rispondere: “L’avvocato è sull’altra linea”». Irraggiungibile, l’avvocato, ma soprattutto Arbasino.
Arbasino andava per conto suo. Faceva parte del Gruppo 63 ma ne era tutt’altro che organico. Quando invitava ad andare a Chiasso per aggiornarsi e sprovincializzarsi un po’, non aveva tanto i romanzi italiani come bersaglio delle sue rampogne, quanto appunto l’arretratezza di una cultura che ancora, chiusa nelle sue gabbie ideologiche e religiose, nei suoi idealismi e nei suoi tradizionalismi, non sapeva fare i conti con la psicoanalisi, la sociologia, l’antropologia. Sul piano della letteratura gli anni della pubblicazione di Fratelli d’italia, i primi anni Sessanta, sono stati un concentrato di romanzi eccellenti, tra i migliori del dopoguerra italiano: da Il giardino dei Finzi-contini di Giorgio Bassani a Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, da Ferito a morte di Raffaele La Capria a La vita agra di Luciano Bianciardi fino a Il male oscuro di Giuseppe Berto.
È l’epoca del grande cinema dei Risi, dei Monicelli, dei Germi, degli Scola. Non sono la letteratura e il cinema a dover andare a Chiasso, in quello scorcio di anni, ma la cultura, «i fantasmi che tornano e che ritornano», come ha scritto Alberto Arbasino in un libro fondamentale per capire il carattere italiano negli anni Settanta e Ottanta come Un paese senza.
Arbasino è stato un maestro della battuta fulminante, della definizione sferzante, del gioco di parole che definisce un vizio nazionale: pure questa è letteratura. Ma è anche un voler prendere sul serio le idee, i pregiudizi, oppure la politica, che in Italia, ha scritto Arbasino, viene costantemente rappresentata come «guerra di rione e vittoria di marciapiede». Ma nel suo argomentare non c’era mai malanimo o, peggio, la posa arcigna del moralista cupo, del fustigatore dei costumi, dello sradicatore lugubre dei vizi nazionali. Il suo argomentare e raccontare, intrecciati, erano piuttosto un riunire ironia e severità, come testimonia questo passaggio dal tono definitivo: «Generoso perdono e assoluzione, praticamente subito, per chi ha sparato o ammazzato sconosciuti e congiunti. Rancore sempiterno e vendette secolari per chi ti ha detto (ed era la verità): stronzo».
Aderì al Gruppo 63. Scrisse sul «Corriere», e non soltanto, esplorando teatri e sale
Sarcasmo
La politica italiana, ironizzava, è sempre «guerra di rione e vittoria di marciapiede»
Marcuse e Mao, addio Armani e l’editore Adelphi per lui avevano portato i giovani «dal Vietnam a Vuitton»