Da leggere o rileggere, poco importa I grandi libri sorprendono sempre
Da domani in edicola con il quotidiano il primo volume della serie «I classici di una vita» Sanno parlare con linguaggi e significati diversi ai giovani e agli adulti Come diceva Calvino, ogni volta «si trovano nuovi, inaspettati, inediti»
Appartengo a quella categoria di persone alle quali viene impossibile interessarsi a qualcosa che gli viene imposto. Si capisce, allora, che la scuola non abbia potuto niente, su di me, circa l’invito alla lettura dei classici: il pacchetto educativo, didattico, quando non addirittura morale, con cui venivano presentati era per me un dissuasore potentissimo. Dato però che l’altro lato di questa natura è l’appassionarsi, invece, in modo ossessivo a tutto ciò che scopriamo da soli, e dato che la lettura — fin lì, di fumetti — mi piaceva, serviva solo l’innesco giusto.
Arrivò durante un’estate dei miei undici o dodici anni, nella forma di una ragazzina che, al mare, al mattino, invece di giocare a ping-pong e beach volley con noialtri, restava seduta alle cabine a leggere un tomo ponderoso. Era Il rosso e il nero di Stendhal, di cui non sapevo niente salvo il fatto che era un romanzo molto lungo. Un po’ per curiosità, un po’ per competizione (e un po’ per fare colpo su di lei), il giorno successivo mi presentai anch’io con un tomo: le case al mare, si sa, hanno biblioteche carenti sia quantitativamente che qualitativamente — se si è affermato un modo di dire come «letture da ombrellone», ci sarà pure una ragione — ma scavando in soffitta, tra innumerevoli gialli tascabili macinati negli anni da mia nonna, recuperai un libro che pareva in grado di competere con quello della ragazzina stendhaliana. Romanzo russo: garanzia di qualità, oltre che di ponderosità, anche ai miei occhi di dodicenne. Era Delitto e castigo di Dostoevskij.
È naturale, allora, che di fronte al piano dell’opera de «I classici di una vita», che include, tra tanti capolavori, anche quei due libri, si riaffaccino alla memoria dalla caligine del passato quei giorni di quasi tre decenni fa. Quei giorni, e non solo: perché dopo la lettura dei due romanzi (va da sé che il passo successivo, un paio di settimane dopo, fu proporre alla ragazzina lo scambio) ne seguirono tanti altri, ma soprattutto seguì, molti anni più tardi, la loro rilettura.
Se un classico, secondo la ben nota definizione di Calvino, è «un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire», è anche — sempre secondo Calvino — un libro di cui «si sente dire di solito “Lo sto rileggendo…” e mai “Lo sto leggendo…”», ma anche, al netto di ogni ironia, «un libro di cui la rilettura resta una lettura di scoperta».
Fu così: riletti da giovane adulto, Delitto e castigo e Il rosso e il nero non rivelarono soltanto un precipitato filosofico che prima mi era sfuggito, ma altresì nuovi significati che parlavano alla persona diversa che ero, nel frattempo, divenuto. Una persona a cui avrebbe parlato con parole potenti Gustave Flaubert, e proprio con L’educazione sentimentale, che fu la porta per tutta la sua opera, che ancora tengo carissima e periodicamente rileggo. E una persona che, rispetto alle certezze della giovinezza, avrebbe imparato anche a cambiare idea: ad esempio su Dickens, autore che non mi aveva mai attirato, e che — ingenuo — credevo di conoscere per gli innumerevoli adattamenti cinematografici, nonché per la sua pervasività nella cultura pop.
Mi persuase a leggerlo, sei o sette anni or sono, Stefan Zweig, col suo famoso «Legga Dickens, legga Dickens… Signora, legga Dickens!», e cominciai con quello che mi sembrava l’ingresso più logico: Oliver Twist.
Ebbi la conferma dell’ennesima definizione calviniana: «I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti». Dickens mi colpì forte e in modo inatteso, e su tutto mi inebriò la portata della sua influenza: io, sciocco, credevo di conoscere Tolkien, e non mi rendevo conto di quanto decisivo fosse stato l’apporto di Dickens nel fornirgli le strutture atte a trasformare uno spropositato mash-up di miti in romanzo moderno (e vogliamo parlare dell’influenza di Dickens sulla Rowling? In sostanza viene tutto da lì, anche quel certo humour che rende la lettura di Harry Potter così gustosa anche per gli adulti…).
Cosa posso aspettarmi, oggi, da una collana di classici? Chissà, forse di trovare una nuova, e migliore, relazione con Francis Scott Fitzgerald: a parte quella prova eccelsa di abilità prosastica che è la prima parte di Tenera è la notte, è un autore che, nonostante la mia passione di lungo corso per la letteratura americana, non mi ha mai parlato: mi si offre ora l’occasione buona per la rilettura del Grande Gatsby, un libro mondano e quindi antitetico rispetto ai tempi che viviamo — ma del resto «è classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona» —, e chissà che tra qualche settimana non mi ritrovi a pasteggiare a champagne e pettinarmi con la divisa in mezzo mentre ascolto del jazz.
Dickens
Mi colpì forte e in modo inatteso. Mi inebriò la portata della sua influenza su altri autori
Fitzgerald
Chissà che tra qualche settimana, riprendendolo, non mi trovi ad ascoltare jazz