Un Camilleri che regala risate con un fondo di amarezza
U n Camilleri divertente, un Camilleri farsesco, un Camilleri che schernisce mafia e burocrazia colpendole alle spalle per uno sgambetto, volutamente, teatralmente, come se fossero poco più che intrighi domestici.
Sicilia 1891, a trent’anni dal compimento dell’unità nazionale. Pippo Genuardi è un piccolo commerciante di Vigàta che traffica in legnami. Ma questa non è la sua occupazione maggiore: il suo vero talento è quello di cacciarsi nei guai. Spiantato, ironico, amante delle «fimmine» e della tecnologia, Pippo sembrerebbe aver messo la testa a posto sposando Taninè Schilirò, figlia dell’uomo più ricco di Vigàta. Irrequieto e sempre nei pasticci, Pippo richiede al Prefetto Marascianno una linea telefonica che colleghi la casa del suocero con il suo magazzino.
Ma le sue missive genereranno una serie di incomprensioni, una sorta di grande commedia degli equivoci che alla fine lascia l’amaro in bocca (e mafia e burocrazia e carrierismo ritrovano la loro vera dimensione). La concessione del telefono completa la trilogia di C’era una volta Vigata, dopo il successo de La mossa del cavallo (2018) e La stagione della caccia (2019). Diretto da Roan Johnson, il film scorre con brio, con acutezza pungente come se Pippo Genuardi (Alessio Vassallo)
fosse un «pupo» nelle mani ora di don Lollò (Fabrizio Bentivoglio), l’uomo di rispetto di Vigàta, ora di uno scatenato prefetto Marascianno (Corrado Guzzanti) che governa con i numeri del lotto. Così Genuardi, nella sua gaudente vanità, subisce vessazioni sia da parte dello Stato che, nel clima di rivolta del movimento operaio e contadino, vuole un capro espiatorio, sia dall’antistato, pronto a sfruttare ogni occasione pur di realizzare i propri affari illeciti.
Si ride ma si ride con amarezza, come se al fondo di questa storia ci fosse un mondo, al tempo stesso, ilare e spaventoso.