COSA FU DAVVERO IL DOPOGUERRA
I richiami al Dopoguerra non ci confondano: tra la Liberazione e il boom economico l’italia ha vissuto anni di sacrifici e dolorosi scontri interni
Il tempo che ci attende viene giustamente paragonato al dopoguerra e alla ricostruzione. L’importante è avere chiaro che il dopoguerra non è un pranzo di gala. La storia non si ripete mai due volte. Oggi non abbiamo macerie da ricostruire, non abbiamo mandato soldati mal equipaggiati nel deserto africano e nell’inverno russo.
Per tacere dei duemila congelati — a giugno — nella breve guerra alla Francia e del disastroso attacco alla Grecia. Stavolta ci siamo limitati a lasciare senza protezioni medici e infermieri, carabinieri e poliziotti; ma questa è l’ora di rimediare, non di discutere. I raffronti con il passato sono inutili e a volte fuorvianti. È lo spirito del tempo che però va conosciuto, e ritrovato. Basta essere consapevoli di come quel tempo sia stato.
È vero che le nostre madri e i nostri padri ricostruirono un Paese distrutto e umiliato e ne fecero in due decenni una grande potenza industriale. Ma sarebbe un errore pensare che questo sia accaduto — oltre che ovviamente senza enormi sacrifici — anche senza tensioni e contrapposizioni.
Passata la bufera della guerra, proseguono le vendette partigiane: crimini privati, delitti ideologici perpetrati dai comunisti — in Emilia ma non solo — e anche regolamenti di conti certo da condannare ma forse difficili da evitare dopo vent’anni di dittatura e venti mesi di feroce guerra civile. Monarchici e repubblicani si scontrano non solo metaforicamente: scorre il sangue, il buon senso di Umberto II evita il peggio. È vero che per tre anni, dal 1944 al 1947, Alcide De Gasperi guida un governo che comprende socialisti e comunisti, con Palmiro Togliatti che firma come Guardasigilli l’amnistia. Ed è vero che, nonostante la rottura della primavera 1947, i partiti riescono — sia pure al prezzo di astrazioni e compromessi — a scrivere insieme la Costituzione. Ma la campagna elettorale del 1948 è durissima, anche sul piano dell’ordine pubblico; e dopo la vittoria democristiana la battaglia prosegue nelle piazze, dove la polizia spara regolarmente sui cortei di operai e contadini, e in fabbrica, fino a quando Vittorio Valletta non riprende il controllo della Fiat a prezzo di migliaia di licenziamenti.
È vero che arrivano i dollari del Piano Marshall. Ma è anche vero che la linea di frattura tra i due blocchi in cui è diviso il mondo non soltanto passa da Trieste — che torna all’italia solo nel 1954, dopo il doloroso esodo di 350 mila istriani e dalmati accolti spes- so con vergognosa ostilità —, ma anche nella società italiana, tra coloro che guardano all’america e al Vaticano e coloro che ricevono aiuti dall’unione Sovietica, retta fino al 1953 da Iosif Stalin.
Non dobbiamo insomma pensare che nella storia d’italia il fotogramma successivo alla Liberazione sia l’autostrada del Sole, gli autogrill, la 600, i primi weekend, la scoperta delle vacanze al mare, la tv e gli elettrodomestici nelle case. Quella è storia di quindici anni dopo, e anche più. Il fotogramma successivo alla Liberazione sono bagni sul ballatoio, case di ringhiera, cucine economiche. Bambini che vanno a scuola a piedi con un pezzo di legno per contribuire ad accendere il fuoco e scaldarsi. Famiglie che si mettono in fila nelle stazioni sventrate dai bombardamenti ad attendere un treno che vada nella direzione in cui loro devono andare.
Questo non significa che noi dovremo soffrire altrettanto, superare le stesse prove. Significa che quando si usano parole come dopoguerra e ricostruzione bisogna sapere quello che diciamo. E la cosa più importante è questa: l’italia fu ricostruita con il lavoro. Lavoro prestato a volte in condizioni durissime: ciminiere in città, reparti verniciatura, acciaierie in riva al mare; errori da non ripetere. Ma lavoro; non redditi di cittadinanza per tutti. Un conto è dare oggi soldi in mano a chi non può fare la spesa; questo è giusto. Un altro conto è pensare che il futuro appartenga ai sussidi, a una garanzia universale finanziata dai surplus della rete o dalla benevolenza della Bce. È giusto far ragionare i tedeschi sul fatto che un’italia a pezzi non conviene neanche a loro, e chiedere alla Germania uno sforzo di solidarietà; ma per uscire dall’emergenza e rilanciare la produzione, non per pagare stipendi a forestali della Magna Grecia e finanziarie forme di assistenzialismo che servono solo a far dipendere i cittadini dalla politica.
La crisi da coronavirus non è stata un fulmine a ciel sereno, ma la mazzata dopo una crisi economica e finanziaria da cui l’italia non si è mai davvero ripresa. È inutile sia vagheggiare un’immaginaria concordia nazionale che non è mai esistita, sia illudersi che a lavorare per noi possano essere altri. Il genio non è solo estro, invenzione, fantasia, ma tenuta, lungimiranza, perseveranza. È il momento di dimostrare che il genio italiano non si esprime solo in cose fatte dai nostri avi, tanto tempo fa.
Nella storia d’italia, i fotogrammi dopo il 25 aprile non sono autostrade e vacanze: ma bagni sul ballatoio, case di ringhiera, cucine economiche