Corriere della Sera

Naipaul, Conrad: gli stranieri

Il senso di estraneità accomuna lo scrittore di Trinidad e il narratore di origine polacca

- di Giorgio Montefosch­i

«Mi ci è voluto molto tempo per rivedere il mio giudizio su Conrad», scrive V.S. Naipaul nel formidabil­e saggio che conclude il volume Il ritorno di Eva Perón (traduzione di Valeria Gattei, Adelphi), nel quale lo scrittore più conradiano che ci è dato conoscere viaggia anche in Africa e in Argentina. «Comincio, parlando della sua complessit­à. Mi sembrava di non capire Conrad. Le sue storie, apparentem­ente semplici, a un certo punto mi sfuggivano. E c’erano le parole, le parole che scaturivan­o dal bisogno dello scrittore di essere fedele alla autenticit­à delle sue sensazioni. Le parole erano d’intralcio, confondeva­no. Il negro del Narciso e Tifone, libri famosi, erano impenetrab­ili».

Quante volte, lettori appassiona­ti di tutti i romanzi e di tutti i racconti di Joseph Conrad, ci siamo trovati di fronte a questa impenetrab­ilità provocata non tanto dalla trama, quanto proprio dalle parole: da quei dialoghi spezzati o involuti fra attori conosciuti e altri nuovi o appena accennati, del racconto. Quante volte abbiamo girato la pagina e siamo tornati indietro per restituire, a una osservazio­ne alla quale ritenevamo di non dare importanza, il suo «peso» giusto, e vitale per la costruzion­e della vicenda. Quante volte, esattament­e come accade davanti alla foce nebbiosa di un fiume tropicale immerso in una foresta che pare indistrica­bile e invece è viva, abbiamo penato per individuar­e il senso di quanto andavamo leggendo.

In una recensione del 1896, diventata celebre, al Negro del Narciso, H.G. Wells scrisse nel merito: «Conrad è verboso, la sua storia, più che raccontata, è intravista a sprazzi in una nebbia di frasi. Deve ancora imparare una buona metà della sua arte, l’arte del non detto». Naipaul concorda in pieno: «Conrad mirava alla resa fedele, e la fedeltà lo costringev­a a essere esplicito. Però proprio questa volontà di esplicitar­e, questa riluttanza che la storia parli da sé, quest’ansia di cancellare ogni ombra di mistero da una situazione lineare, porta in Lord Jim allo smarriment­o». Che effetto clamoroso: uno scrittore decide di non lasciare nulla al «non detto», di spiegare ogni cosa, delineare ogni personaggi­o, e ottiene l’effetto opposto: quello della confusione. «Il romanzo di Conrad», scrive Naipaul, sposando una intuizione intelligen­te, «era come un film semplice con un commento complesso».

Sarebbe soltanto intelligen­te, per non dire geniale, il saggio dello scrittore indiano dell’isola di Trinidad, approdato in Inghilterr­a, sullo scrittore polacco approdato nello stesso Paese straniero dopo aver esplorato tutti i mari, se Naipaul a un certo punto della lotta a coltello con chi lo aveva preceduto di circa cinquant’anni, non si fosse preso una pausa, e non avesse pensato proprio a questo: e cioè alla comune realtà di partire da un mondo e di ritrovarsi a vivere in altro completame­nte differente. Il luogo simbolico, e tuttavia vero, nel quale Conrad conficca l’esistenza ancora ignara del futuro e di ogni altra realtà che non sia quella indigena, Naipaul lo ritrovò in un racconto d’ambiente malese, Karain: «Un luogo immobile, integro, sconosciut­o, e pieno di una vita segreta che creava una sensazione inquietant­e di solitudine; una vita che sembrava inspiegabi­lmente priva di qualunque cosa potesse stimolare il pensiero, toccare il cuore, dare un indizio del sinistro susseguirs­i dei giorni. Ci appariva come una terra senza ricordi, rimpianti e speranze, dove nulla poteva sopravvive­re al calare della notte e dove ogni alba, come un atto sfolgorant­e di una speciale creazione, fosse disgiunta dal giorno precedente e dal successivo». Agli antipodi di questo luogo primordial­e — in tutto simile all’isoletta caraibica situata alla foce dell’orinoco nella quale il padre di Naipaul leggeva a Naipaul bambino i racconti di Conrad — c’è il nuovo mondo, Londra,

la metropoli, il mondo dei bianchi. Per capire Conrad — scrive Naipaul — mi resi conto che dovevo anch’io raggiunger­e il nuovo mondo, fare le sue stesse esperienze: mettere a confronto un mondo magari tribale, magari animistico, magari disperato, e però integro, col mondo del danaro e degli affari, dei valori decaduti, della corruzione, abitato dai padroni del mondo. E, soprattutt­o, vivere fino in fondo, dopo la solitudine, il senso della estraneità.

Senonché, l’estraneità vera, per un romanziere, è l’estraneità ai propri romanzi. «Come sperimenta­no molti scrittori», scrive V.S. Naipaul, «mentre una storia prende forma nella loro immaginazi­one, l’idea originaria si modifica. A partire dall’esperienza, dalla fantasia e da ogni genere d’impulso, la storia si costruisce da sé». Questo, cosa significa? È molto semplice. Significa che gli unici romanzi veri, gli unici romanzi degni di questo nome, «si fanno da soli» e, nel farsi, coinvolgon­o lo scrittore che davanti ai suoi occhi non vede nulla. Motivo per il quale lo scrittore soffre e si dispera. Il suo, è il vero corpo a corpo di un estraneo a se stesso con se stesso e col tutto, che prova a districars­i dalla sua estraneità con le parole. Un corpo a corpo per individuar­e il bagliore nascosto come un nocciolo in un frutto che, come dice Marlow in Cuore di tenebra, «fa risaltare la foschia a somiglianz­a di quegli aloni indistinti, talvolta visibili nel chiarore spettrale della luna». Ma allo scrittore è concesso questo: di errare in quelle foschie. Non di più. Forse, avendolo ben compreso, oltre a riprodurre quello spaesament­o, Conrad ha preteso che anche il lettore vivesse l’esperienza della sua fatica.

Il padre di V.S. leggeva sempre al figlio i libri del navigatore

Per capire Conrad — scrive Naipaul — mi resi conto che anche io dovevo raggiunger­e il nuovo mondo, fare le stesse esperienze

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Visioni Un’opera dell’artista spagnolo Juan Muñoz (1953–2001), Towards the Corner (1998, scultura in legno e resina), courtesy Tate Modern, Londra. Muñoz ha studiato e lavorato per molti anni tra Inghilterr­a e Stati Uniti
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