Naipaul, Conrad: gli stranieri
Il senso di estraneità accomuna lo scrittore di Trinidad e il narratore di origine polacca
«Mi ci è voluto molto tempo per rivedere il mio giudizio su Conrad», scrive V.S. Naipaul nel formidabile saggio che conclude il volume Il ritorno di Eva Perón (traduzione di Valeria Gattei, Adelphi), nel quale lo scrittore più conradiano che ci è dato conoscere viaggia anche in Africa e in Argentina. «Comincio, parlando della sua complessità. Mi sembrava di non capire Conrad. Le sue storie, apparentemente semplici, a un certo punto mi sfuggivano. E c’erano le parole, le parole che scaturivano dal bisogno dello scrittore di essere fedele alla autenticità delle sue sensazioni. Le parole erano d’intralcio, confondevano. Il negro del Narciso e Tifone, libri famosi, erano impenetrabili».
Quante volte, lettori appassionati di tutti i romanzi e di tutti i racconti di Joseph Conrad, ci siamo trovati di fronte a questa impenetrabilità provocata non tanto dalla trama, quanto proprio dalle parole: da quei dialoghi spezzati o involuti fra attori conosciuti e altri nuovi o appena accennati, del racconto. Quante volte abbiamo girato la pagina e siamo tornati indietro per restituire, a una osservazione alla quale ritenevamo di non dare importanza, il suo «peso» giusto, e vitale per la costruzione della vicenda. Quante volte, esattamente come accade davanti alla foce nebbiosa di un fiume tropicale immerso in una foresta che pare indistricabile e invece è viva, abbiamo penato per individuare il senso di quanto andavamo leggendo.
In una recensione del 1896, diventata celebre, al Negro del Narciso, H.G. Wells scrisse nel merito: «Conrad è verboso, la sua storia, più che raccontata, è intravista a sprazzi in una nebbia di frasi. Deve ancora imparare una buona metà della sua arte, l’arte del non detto». Naipaul concorda in pieno: «Conrad mirava alla resa fedele, e la fedeltà lo costringeva a essere esplicito. Però proprio questa volontà di esplicitare, questa riluttanza che la storia parli da sé, quest’ansia di cancellare ogni ombra di mistero da una situazione lineare, porta in Lord Jim allo smarrimento». Che effetto clamoroso: uno scrittore decide di non lasciare nulla al «non detto», di spiegare ogni cosa, delineare ogni personaggio, e ottiene l’effetto opposto: quello della confusione. «Il romanzo di Conrad», scrive Naipaul, sposando una intuizione intelligente, «era come un film semplice con un commento complesso».
Sarebbe soltanto intelligente, per non dire geniale, il saggio dello scrittore indiano dell’isola di Trinidad, approdato in Inghilterra, sullo scrittore polacco approdato nello stesso Paese straniero dopo aver esplorato tutti i mari, se Naipaul a un certo punto della lotta a coltello con chi lo aveva preceduto di circa cinquant’anni, non si fosse preso una pausa, e non avesse pensato proprio a questo: e cioè alla comune realtà di partire da un mondo e di ritrovarsi a vivere in altro completamente differente. Il luogo simbolico, e tuttavia vero, nel quale Conrad conficca l’esistenza ancora ignara del futuro e di ogni altra realtà che non sia quella indigena, Naipaul lo ritrovò in un racconto d’ambiente malese, Karain: «Un luogo immobile, integro, sconosciuto, e pieno di una vita segreta che creava una sensazione inquietante di solitudine; una vita che sembrava inspiegabilmente priva di qualunque cosa potesse stimolare il pensiero, toccare il cuore, dare un indizio del sinistro susseguirsi dei giorni. Ci appariva come una terra senza ricordi, rimpianti e speranze, dove nulla poteva sopravvivere al calare della notte e dove ogni alba, come un atto sfolgorante di una speciale creazione, fosse disgiunta dal giorno precedente e dal successivo». Agli antipodi di questo luogo primordiale — in tutto simile all’isoletta caraibica situata alla foce dell’orinoco nella quale il padre di Naipaul leggeva a Naipaul bambino i racconti di Conrad — c’è il nuovo mondo, Londra,
la metropoli, il mondo dei bianchi. Per capire Conrad — scrive Naipaul — mi resi conto che dovevo anch’io raggiungere il nuovo mondo, fare le sue stesse esperienze: mettere a confronto un mondo magari tribale, magari animistico, magari disperato, e però integro, col mondo del danaro e degli affari, dei valori decaduti, della corruzione, abitato dai padroni del mondo. E, soprattutto, vivere fino in fondo, dopo la solitudine, il senso della estraneità.
Senonché, l’estraneità vera, per un romanziere, è l’estraneità ai propri romanzi. «Come sperimentano molti scrittori», scrive V.S. Naipaul, «mentre una storia prende forma nella loro immaginazione, l’idea originaria si modifica. A partire dall’esperienza, dalla fantasia e da ogni genere d’impulso, la storia si costruisce da sé». Questo, cosa significa? È molto semplice. Significa che gli unici romanzi veri, gli unici romanzi degni di questo nome, «si fanno da soli» e, nel farsi, coinvolgono lo scrittore che davanti ai suoi occhi non vede nulla. Motivo per il quale lo scrittore soffre e si dispera. Il suo, è il vero corpo a corpo di un estraneo a se stesso con se stesso e col tutto, che prova a districarsi dalla sua estraneità con le parole. Un corpo a corpo per individuare il bagliore nascosto come un nocciolo in un frutto che, come dice Marlow in Cuore di tenebra, «fa risaltare la foschia a somiglianza di quegli aloni indistinti, talvolta visibili nel chiarore spettrale della luna». Ma allo scrittore è concesso questo: di errare in quelle foschie. Non di più. Forse, avendolo ben compreso, oltre a riprodurre quello spaesamento, Conrad ha preteso che anche il lettore vivesse l’esperienza della sua fatica.
Il padre di V.S. leggeva sempre al figlio i libri del navigatore
Per capire Conrad — scrive Naipaul — mi resi conto che anche io dovevo raggiungere il nuovo mondo, fare le stesse esperienze