PERCHÉ RICOMINCI LA VITA
Emergenza Gli italiani resisteranno ancora settimane nelle loro case solo in un contesto certo di garanzie sociali e di ripresa
Non c’è solo un picco, in questa incredibile storia. Ce ne sono almeno due. Il primo è quello che si attende di valicare presto. Quello dell’evoluzione dell’epidemia. Abbiamo avuto un numero di morti intollerabile e siamo stati impiastrati da una bava di dolore che ha riguardato centinaia di migliaia di persone.
P ersone che hanno sofferto direttamente o visto soffrire chi amavano, che poi è lo stesso. Quei morti — ma quanti sono davvero? — se ne sono andati in solitudine, senza il conforto di una mano che non fosse quella del medico o dell’infermiere che, col cuore schiantato, in quel momento erano figli, mogli, mariti, amici di persone sconosciute.
Erano anziani, ci si è detto, quasi per tranquillizzarci. Come se gli anziani fossero dei telefonini desueti. Oggetti da rottamare.
Questa società presentista, priva di memoria e di umiltà, incapace di riannodare i fili con la sua storia, ha mostrato in questa crisi un grado elevato di spietatezza: basti pensare alle parole di Boris Johnson sui «cari» che si sarebbero persi.
Noi contiamo diecimila morti, un terzo delle vittime nel mondo. Diecimila persone. Non importa di quale età. Non importa se fossero in una casa di riposo o nel pieno delle attività. Abbiamo perso diecimila italiani, in questa battaglia. Sono tre volte i morti delle torri gemelle, cinquanta volte quelli degli anni di fiele del terrorismo. E nessuno ha il diritto di dimenticarlo, mai.
Consultiamo ogni sera alle 18 il bollettino dei nostri comandanti in campo. Ponderiamo le curve dei numeri e sorridiamo, è giusto farlo, se registriamo «una riduzione dell’incremento». Ci accontentiamo di poco e pendiamo dalle labbra di professori e di scienziati che, dopo un tempo zuzzerellone di contestazione beffarda del sapere e delle competenze, sono il nostro riconosciuto nocchiero in questo mare nero. Nero, come quello finto del Casanova di Fellini. Lo passeremo, prima o poi, quel colle. Quella curva si farà piatta e poi comincerà a scendere. Perché non esserne certi? Ha cominciato a farlo. E per questo dobbiamo restare in casa, ancora.
Sarà a partire dal suo movimento e non da altro che il Paese dovrà decidere, spero con una coerente strategia definita da ora, le modalità e i tempi di una riapertura. La vita, per prima.
Il paradosso di questo tempo marziano sono le piazze vuote e le case piene. Miliardi di esseri umani in tutto il mondo sono privati, ora, della possibilità di avere relazioni umane, di incontrarsi, di lavorare, di coltivare i propri affetti più cari. Di andare a scuola, in ufficio, al negozio, in fabbrica, in un teatro, i bambini a giocare in un parco… Quanto è immaginabile duri tutto questo?
Eccolo, il secondo picco. Il primo è decisivo e condizionante. E’ inutile ripeterselo: la salute prima di tutto. Ma, voglio essere chiaro, la cattività di massa è sopportabile ad una sola condizione: che alla fine del tunnel non ci sia un altro tunnel. Che cioè ciascuno sappia che la sua vita, dopo, è garantita. Che lo Stato non faccia pagare ai cittadini colpe che non sono loro. Che nessuno perda il lavoro, la possibilità di pagare l’affitto di casa o l’acquisto dei generi fondamentali per colpa del coronavirus. Se si farà strada, sta già succedendo, l’idea che invece tutto è in discussione, che non esistono certezze, che il governo creda davvero che una famiglia possa vivere con seicento euro al mese, allora il rischio è che, al culmine del picco, si arrivi in un clima di conflitto e di febbrile scollamento.
Io non ho mai compreso la quantità, esagerata e teatrale, di rimbrotti nei confronti dei cittadini italiani. Da quasi un mese sessanta milioni di persone si sono chiuse in casa, hanno smesso di lavorare e di guadagnare, hanno chiuso negozi e imprese, hanno rinunciato ad andare a scuola e persino a passeggiare. Al netto di deprecabili eccezioni, sessanta milioni di italiani hanno rispettato le decisioni dure del governo e sono disposti a farlo ancora.
Ad una sola condizione. Che poi trovino il lavoro che avevano, il negozio che avevano, l’impresa che avevano. La vita che avevano. Il governo ha preso un impegno solenne. Di quelli che sono quasi un patto costituente della fiducia e dei sacrifici che il Paese fa: «nessuno perderà il lavoro per il coronavirus». Questo impegno va preso alla lettera. Nessuno perderà il lavoro non deve significare seicento euro al mese di, legittima, assistenza.
Significa il lavoro. Significa ricostruire le condizioni di una nuova fase di sviluppo italiano fondata su ambiente, sapere, infrastrutture materiali e digitali. Significa che i soldi che spenderemo non devono essere, finita l’emergenza più grave, una nuova pagina dell’assistenzialismo di massa ma un flusso di risorse guidato da una visione strategica e moderna del Paese nuovo che dovrà nascere dopo questa crisi. Solo così saremo forti anche nel parlare all’europa. L’europa che, senza furbizie e particolarismi nazionalistici, deve garantire, pena il suo sgretolamento, il sostegno solidale in questa emergenza drammatica. Altrimenti la sua stessa idea fondante sarebbe messa in discussione, per sempre.
In questi giorni si sta passando, nelle case, il momento più difficile: finita la sorpresa dei primi momenti, attenuatisi i balconi e le dirette via social, con l’incertezza sulla data, sempre posposta, in cui si potrà tornare a vivere normalmente, le persone contano i danni di questo terremoto. E hanno paura. Si aspettano ora non moduli da riempire, ma liquidità per imprese e lavoro. La burocrazia, nemica della trasparenza, deve far posto urgentemente alla velocità.
La democrazia non è un regalo. Vive se si tiene desto un patto sociale. Quando questo si rompe, come negli anni venti evocati correttamente da Mario Draghi, si fa strada la domanda di un potere semplificato, di una catena di comando salda perché detenuta da una o poche mani. Quello che sta accadendo in Ungheria, la cui presenza nell’europa dei valori democratici è da tempo anacronistica, è la conferma più evidente dei pericoli dei quali parliamo non da oggi.
La democrazia, meravigliosa conquista del sanguinoso novecento, vive solo se garantisce la vita dei suoi cittadini. Se è capace di assicurare ad essi l’unica vera forma di sicurezza: la sicurezza sociale.
Negli Usa, che mettono nel conto un numero di morti pari a due o quattro volte quello che hanno registrato in Vietnam, ci sono state le code ai negozi di armi, nella convinzione che a questa crisi sarebbero corrisposti presto violenti riots sociali. Dai quali, ovviamente, difendersi da soli.
Non è, non deve essere il nostro modello. Gli italiani resisteranno ancora settimane nelle loro case solo in un contesto certo di garanzie sociali e di ripresa.
Uscire dal tunnel trovando la notte è una prospettiva che davvero non meritano.