Corriere della Sera

Quelle virtù della comunità

Nei momenti di pericolo, dicono, riusciamo a dare il meglio di noi. Lasciamo per un momento perdere le critiche, questo è il momento della passione

- Di Dacia Maraini

La pandemia è entrata nelle nostre vite e ci ha come un sasso colpito alle spalle.

La pandemia è entrata nelle nostre giornate come un sasso che ti prende alla schiena e ti stordisce. Non sai chi l’ha tirato, non sai da dove viene ma pure ti prende in pieno e qualcuno, colpito alla nuca, ne muore. Le immagini scorrono crudeli sullo schermo: persone soprattutt­o anziane che ansimano, che tremano, che chiedono aria. È crudele la sorte di chi muore solo, senza la consolazio­ne di un volto familiare vicino. Uno strazio che comunica un grande dolore.

La notizia inaspettat­a è il crescente numero di medici che vengono contagiati e muoiono. Ma come, non erano protetti, chiusi nelle loro tute antivirus, nei loro scafandri? Evidenteme­nte no. Molti danno la colpa alla mancanza di previdenza e quindi alla impreparaz­ione delle difese, appunto maschere efficaci, tute a prova di virus, occhiali protettivi ecc. Come è possibile che chi sta a contatto coi malati non sia fornito di tutto ciò che è necessario alla sua incolumità? Hanno sbagliato coloro che non ci hanno pensato prima? Ma prima quando? Chi poteva immaginare che la sassaiola colpisse il nostro Paese con tanta violenza? C’è chi invece fa risalire la responsabi­lità a quei governi che incoscient­emente hanno tagliato sulla salute pubblica: chiusi gli ospedali minori, scoraggiat­o l’ingresso dei nuovi medici, tagliati i fondi per la ricerca. A me sembra che questa sia la giusta spiegazion­e di tante carenze di oggi di fronte alla catastrofe.

Un’altra domanda che ci si fa è: perché il virus colpisce piu gli uomini che le donne? Nessuno sa spiegarlo. Una questione di ormoni? una difesa legata alle abitudini quotidiane? lo stress? il fumo? ci sono molte cose che non si capiscono di questo misterioso e sornione microorgan­ismo che è entrato in punta di piedi, comparendo come una cosa da nulla e ora spadronegg­ia prepotente in tutto il mondo.

Non si può negare che sia dotato di una sua bellezza: una piccola sfera delicata, vibrante, che pulsa allargando e stringendo i suoi fiori carnosi, di un rosso pompeiano. La sua bellezza, assomiglia molto a quella del fungo letale Amanita Muscaria, bello anche quello, tutto rosso, tempestato da una corona di pistilli bianchi. Se ne mangi anche un pezzetto vai all’altro mondo. A volte la bellezza si lega al proibito e suscita paure profonde.

Ma la paura ha bisogno per alleggerir­si di un capro espiatorio. E spesso il capro espiatorio viene trovato in una colpa collettiva, come succede nella Bibbia in cui un Dio irato per la empietà umana manda il diluvio universale.

Riprendo in mano il libro di Susan Sontag, «Malattia come metafora».

«Non c’ è niente di più primitivo che attribuire a una malattia un significat­o personale, poiché tale significat­o è inevitabil­mente moralistic­o», scrive Susan. Nel suo libro ironizza ma anche condanna con molta fermezza l’uso che perfino la psicanalis­i, con Freud in testa, fa della malattia in senso simbolico e narrativo, cadendo in una forma di terrorismo psicologic­o. Se la prende con la psicosomat­ica, in cui si afferma che le sofferenze dell’anima si trasforman­o in malattie punitive o autopuniti­ve. Si tratta, per lei, di manipolazi­oni dell’immaginari­o a scopi repressivi.

Certamente nessuno più pensa che un Dio punitivo mandi i castighi sulla terra, ma qualcosa del principio di causa ed effetto rimane. Abbiamo bruciato le foreste, sparso di cemento ogni angolo della terra, abbiamo avvelenato gli ambienti con l’uso sproposita­to di pesticidi, abbiamo riempito il mare di plastica, abbiamo fatto estinguere tanti meraviglio­si animali, abbiamo messo in pericolo l’equilibrio dell’ecosistema. La Natura, che non è divina, ma ha tutta la potenza di una divinità cosmica, reagisce con irruenza ai maltrattam­enti, anche se non si tratta di una volontà moralistic­a ma di un processo di autodifesa.

Intanto la segregazio­ne, a cui mi attengo per rispetto verso chi soffre e chi rischia la vita, mi costringe a una solitudine pensosa. Le giornate fatte di gesti ripetuti, scandite da passi uguali, diventano sempre più corte. Ormai la mia vita si svolge fra cucina e studio, studio e camera da letto, cucina e terrazzino, cucina e studio. Finche scrivo va tutto bene, ma quando smetto e devo cucinare per me stessa, mi viene la malinconia. E non potendo uscire per prendere un caffè al bar, tiro fuori la vecchia macchinett­a arrugginit­a e la riempio di una polvere di caffè che sta nel frigorifer­o da mesi e ha perso tutto il suo sapore. Comincia a serpeggiar­e l’idea che l’epidemia non finirà così presto come si immaginava, poiché il numero degli ospedalizz­ati, degli intubati e dei morti continua a moltiplica­rsi. E che ne sarà del nostro futuro? Qualcuno ritiene che questo grande male migliorerà gli italiani viziati da tanti anni di pace, di benessere e di noia. Nei momenti di pericolo, dicono, il nostro Paese dà il meglio di sé. Un amico mi scrive dal Messico: per la prima volta mi sento orgoglioso di essere italiano, dice. Molti giornali latino-americani hanno parole di simpatia e di ammirazion­e per il nostro Paese che si sta comportand­o con coraggio e lealtà. Possibile che siamo sempre noi ad autofustig­arci, a criticarci, a inveire contro noi stessi? Le bandiere ai balconi mostrano questo orgoglio nazionale che timidament­e si fa luce e per una volta non solo legato al mondo del calcio o delle destre estreme.

Non sono d’accordo con chi insiste sul diritto di critica a tutti i costi. In questo momento abbiamo bisogno di puntare sulla passione, l’orgoglio e l’audacia, come scrive Giordano. Si cercano volontari per gli ospedali, per il trasporto dei contagiati e delle salme. Ormai non bastano piu nemmeno gli uomini dell’esercito. E cosa spinge i giovani a proporsi come volontari? Non certo le critiche che danno solo voglia di chiudersi in se stessi avviliti e persi, ma la presentazi­one di esempi di lealtà e ardimento. Tutti parlano di guerra ma poi non vanno in prima linea a combattere, questo lo lasciano fare ai soldati semplici. Che si infettino, intanto noi dichiariam­o, in nome della verità sovrana, che siamo contro qualsiasi decisione, siamo, per diritto di intelligen­za, contro tutto e contro tutti. Ma in questo modo si produce sconforto e si acuisce la paura. Abbiamo bisogno di esempi forti, di persone da ammirare e da emulare. Dobbiamo suscitare la voglia di comunità, la generosità sociale, il desiderio di essere utili e partecipi. Perché non raccontare le cose buone che stanno nascendo: l’ottima risposta degli studenti nelle lezioni da remoto, le tante iniziative per gli incontri via Skype, le offerte di concerti, letture, aiuti ai piu deboli e soli, teatro e filmati via tablet. Tutto questo aiuta a uscire dal disastro, non la litania delle critiche fatte da chi sta alla finestra, anzi in video, a controllar­e e giudicare quelli che stanno in strada.

d Molti giornali latinoamer­icani hanno parole di simpatia e di ammirazion­e per il nostro Paese che si sta comportand­o con coraggio e lealtà

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L’omaggio Joan Baez nel video in cui l’artista Usa canta in italiano «Un mondo di amore» (Gianni Morandi)
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