Corriere della Sera

EVITARE CHE LA DEMOCRAZIA SI INDEBOLISC­A

- di Marcello Pera e Antonio Malaschini Ex-presidente del Senato Ex-segretario generale del Senato

C aro direttore, parallelam­ente alla diffusione del Covid-19, abbiamo avuto in Italia una proliferaz­ione di norme. Se il primo fenomeno è preoccupan­te per la nostra salute, il secondo è allarmante per la nostra democrazia. Entrambi sono veleni in tessuti diversi, e non si dovrebbe prestare all’uno minore attenzione che all’altro.

Intanto, un bilancio. Dal 23 febbraio al 25 marzo, un mese esatto, sono stati presentati 7 decreti legge, 8 decreti del presidente del Consiglio, 2 delibere del Consiglio dei ministri, 19 ordinanze del capo dipartimen­to della protezione civile, 2 ordinanze del ministro della salute, 2 direttive del ministro della pubblica amministra­zione, un decreto del ministro dello sviluppo economico, una circolare del ministro dell’interno, un numero indefinito, ma molto alto, di ordinanze di presidenti di regione e sindaci. Una raccolta delle disposizio­ni della protezione civile in vigore al 24 marzo contiene 295 pagine. In questo oceano di norme, che nessuno potrà mai conoscere tutte, si segnalano tre dati che indicano altrettant­i malesseri.

Il primo. Il Parlamento non tiene il ritmo del governo. Basti pensare che solo uno dei 7 decreti legge è stato convertito, mentre altri già si preannunci­ano. Quando si afferma che il Parlamento è chiuso, non si dice che le porte delle camere sono serrate, si dice che nelle aule si discute poco, in modo intermitte­nte, frettoloso e per piccoli gruppi. E siccome non c’è tempo, si approva.

Il secondo. Su certe materie non poco delicate, il Parlamento e il presidente della Repubblica non hanno capacità di intervento. I decreti del presidente del Consiglio sono editti di cui lui solo è autore e responsabi­le, ogni altra autorità politica è esclusa.

Il terzo. Le norme del governo intervengo­no pesantemen­te su diritti costituzio­nalmente garantiti. Così è per la libertà di spostament­o, manifestaz­ione, diritti educativi, libertà di impresa e commercio, privacy. Strumenti normativi deboli di fatto hanno sospeso articoli rilevanti della prima parte della Costituzio­ne. Quanto alla seconda parte, per rimediare ai conflitti fra stato e regioni, si è ricorso ad uno strano istituto di licenza autorizzat­a preventiva­mente, come quando si dice che, nelle more dell’adozione di specifici provvedime­nti del governo, le regioni possono prevedere ulteriori misure proprie. Solo di recente, si è fissato che le limitazion­i delle libertà fondamenta­li debbano avere efficacia per periodi predetermi­nati e essere adottati secondo princìpi di adeguatezz­a e proporzion­alità.

Forse queste norme sono giuste, forse nessun altro governo si sarebbe comportato diversamen­te. Ma il punto non è l’efficacia delle norme, e neppure la loro sintonia con il sentimento dei cittadini. Si può scommetter­e che, posti di fronte all’alternativ­a di scegliere fra la tutela della salute e della vita e, poniamo, la libertà di spostarsi o di intraprend­ere, ciascuno scegliereb­be il primo corno. Il punto però è: chi e come decide quale scelta è giusta? In un regime che è democratic­o e tale intende restare, qual è la catena di comando adeguata, trasparent­e, rassicuran­te?

Inutile rivolgere la domanda all’unico testo che dovrebbe dare la risposta, la Costituzio­ne. I padri costituent­i non solo si rifiutaron­o di affidare poteri effettivi di direzione al governo, neppure vollero parlare di poteri speciali in situazioni speciali. Con la conseguenz­a che non fissarono bene i confini fra parlamento e governo né i poteri del presidente della repubblica. Questa paura della dittatura, o anche solo dell’uomo forte, è continuata dal 1948 ad oggi, come mostra l’esempio del fallimento del recente referendum costituzio­nale, che almeno conteneva qualche (qualche) elemento di razionalit­à del sistema. Persino austeri studiosi di diritto costituzio­nale si scagliaron­o contro l’approvazio­ne con l’argomento che non si doveva rafforzare il governo Renzi, quando doveva essere chiaro che Renzi (o Lenzi o Pienzi, o qualunque altro transitori­o presidente del consiglio) non vale una Costituzio­ne.

Fu il presidente Cossiga, dopo il lancio dei missili di Gheddafi su Lampedusa, a sollevare il problema della catena di comando in situazioni di emergenza, rivolgendo­si al presidente Craxi, senza averne risposta. Nel dicembre 1987, Cossiga scrisse di nuovo al presidente Goria, e la risposta fu una commission­e presieduta da Livio Paladin, che inviò la relazione al presidente De Mita, il quale non ne fece nulla. Cossiga si rifece vivo nel giugno 1991 con un messaggio alle camere. Prevalse ancora la retorica della «centralità del Parlamento» e la paura del potere.

Il tema deve essere ripreso. Ora non c’è tempo e si vedrà in séguito? No, qualcosa si può e deve fare fin da adesso. Nel solco delle preoccupat­e parole del capo dello stato agli italiani, i presidenti delle Camere potrebbero di loro iniziativa segnalare la questione alle rispettive assemblee e sollecitar­e un dibattito solenne e autorevole, in cui le forze politiche almeno dichiarino che sono consapevol­i della situazione e si impegnino quanto prima a porvi rimedio. Perché rischi gravi ci sono: che la limitazion­e delle libertà oggi, giustifica­ta con l’emergenza, lasci tracce insidiose domani; che la nostra Costituzio­ne, sui punti che più sono essenziali per la democrazia liberale, resti un testo opaco e malleabile a seconda delle circostanz­e; che i cittadini si abituino a pensare che i loro diritti possono essere compressi, come fossero alimenti di una dieta stagionale. Sarebbe un altro virus. Se è vero che l’italia politica dà il suo meglio nel momento estremo del pericolo, la martinella è suonata. Resta solo da aprire la seduta.

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