Corriere della Sera

«I malati gravi, come un’onda che sommerge»

Viaggio dentro la Terapia intensiva del Giovanni XXIII «Non eravamo pronti a vedere tanti pazienti giovani Ci pesa che i malati non abbiano accanto i loro cari»

- di Maddalena Berbenni

«Con i pazienti, qui, non hai alcun rapporto. Il rapporto ce l’hai con i loro polmoni. Poi, quando piano piano li risvegli, hai qualche piccola soddisfazi­one, ma dura pochissimo perché devi subito dimetterli per fare spazio». C’è una linea, tracciata sul pavimento. Paolo Gritti si affaccia, ma non la varca mai. È uno dei medici della Terapia intensiva dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, oggi interament­e destinata ai pazienti Covid-19. È la più grande d’europa con 92 posti letto e 12 di subintensi­va. «Questa è l’area pulita — spiega al di qua della linea — e quella è l’area sporca, dove si entra solo dopo avere indossato le protezioni». Le vedi addosso a un collega di turno: occhiali, mascherina, visiera.

È il sesto lunedì dall’inizio Se sul Pronto soccorso la pressione sembra allentata (40 accessi contro i 90 del picco di metà mese), questa resta la trincea delle trincee. È il «core» dell’ospedale, per usare il termine di Gritti, il centro nevralgico dove la battaglia con il virus è a tratti estenuante. A una postazione, bardato, siede Gianluca Spinelli, 31 anni, uno degli specializz­andi assunti per rafforzare le linee. «Lavora come noi, bisogna essere grati a questi ragazzi», riprende Gritti, 46 anni, di Cividate al Piano, al Papa Giovanni da più di 10. «Il mio primo paziente

62 Anni È la media dell’età dei ricoverati nell’ospedale. Nella Bergamasca i contagiati sono saliti a quota 8.803

92 Posti Sono quelli del reparto di terapia intensiva dell’ospedale Giovanni XXIII. Inoltre ha 12 posti in terapia sub-intensiva

Covid è stato un nonnino di 77 anni, arrivato con un libro di Isabel Allende. Lo avevamo messo sotto il casco c-pap, interagiva­mo con lui e per noi, appunto, era una novità. Era gentile, le infermiere si erano affezionat­e. È peggiorato in 24 ore, lo abbiamo intubato, dopo due giorni è morto. Sono rimasti il libro e un figlio che non ha più rivisto. E così ci siamo resi conto di cosa ci aspettava». Quando è iniziata l’ondata, era sceso a fare la Tac a un anziano: «Aveva un trauma cranico e una contusione a livello polmonare. Pensavamo a un politrauma, poi è risultato positivo. Accanto alla sua lastra ho notato quella di una ragazza con una polmonite interstizi­ale». Fa una pausa. «Ho provato come un momento di sconforto, non eravamo pronti ai giovani».

L’ecmo è una tecnica che consente di mettere a riposo i polmoni. Al Papa Giovanni ha fatto miracoli, ma su un altro tipo di emergenze. Ora la si sta usando per salvare una 37enne e un 42enne, «entrambi in una situazione molto critica. Sono eccezioni, ma neanche più di tanto. Sono molti, invece, i cinquanten­ni e i sessantenn­i». L’età media è di 62 anni. «Il nostro — osserva Gritti — è sempre stato un lavoro delicato, al confine tra la vita e la morte, ma la cosa che più mi ha colpito è stata la quantità di casi critici da affrontare, come essere sommersi da un moto ondoso». Le torri, cioè i reparti, ospitano più di 400 pazienti Covid, la metà dei ricoverati.

Sul piano della Terapia intensiva un cartello improvvisa­to indica la «Chirurgia Covid». In una stanza, con la bombola di ossigeno appoggiata all’ingresso, un medico assiste un malato con casco cpap. La ventilazio­ne non indell’emergenza. tensiva è un alleato prezioso. «Molti sono guariti così e a noi fa guadagnare tempo». Capita che porti a complicazi­oni. «Sono i pazienti più difficili. Li intubiamo, se non basta li mettiamo a pancia in giù e intervenia­mo sulla miscela respirator­ia. Nei casi estremi c’è l’ecmo». Il medico si avvicina alla Stroke Unit, l’unità per chi è colpito da ictus. «È qui che abbiamo portato il primo positivo, affidato a una collega poco più che trentenne». Gli pesano due cose più di altre: «Che i malati non abbiano accanto le persone care ed essere arrivati a doverne trasferire alcuni». Domenica, due in Germania. «Non credevo saremmo riusciti a fare tanto — conclude Gritti —. Abbiamo creato un nuovo ospedale. L’interdisci­plinarità è stata fondamenta­le, tra noi colleghi il rapporto è cambiato, ci si sostiene di più». Con la soddisfazi­one, nel dramma, di fare da apripista: «Abbiamo avuto una videoconfe­renza con un ospedale a Houston, in Texas. Si organizzan­o sul nostro modello».

 ??  ?? Bergamo A sinistra, il reparto di terapia intensiva dell’ospedale «Papa Giovanni XXIII» di Bergamo. Uno dei nosocomi più sotto pressione in Italia per contrastar­e il coronaviru­s. Ieri la cantante israeliana Noa ha annunciato che farà, sabato prossimo, un concerto «social», per raccoglier­e fondi in favore di questo ospedale
Bergamo A sinistra, il reparto di terapia intensiva dell’ospedale «Papa Giovanni XXIII» di Bergamo. Uno dei nosocomi più sotto pressione in Italia per contrastar­e il coronaviru­s. Ieri la cantante israeliana Noa ha annunciato che farà, sabato prossimo, un concerto «social», per raccoglier­e fondi in favore di questo ospedale
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