Corriere della Sera

Avati: ora suono il clarinetto (e non bacio più mia moglie)

Il regista: «Non esco da un mese, uno dei miei tre figli si è ammalato di coronaviru­s a Londra con la famiglia. Dopo 18 giorni stanno tutti meglio»

- di Candida Morvillo

Pupi Avati, 81 anni, 52 regie all’attivo, sta chiuso in casa con la moglie da quasi un mese. «Lei mi vieta di uscire, continua a dirmi di lavarmi le mani», racconta, «non la posso toccare, baciare, abbracciar­e. I due figli che abbiamo a Roma ci lasciano la spesa in ascensore. L’altro, che si occupa di effetti speciali per il cinema, è a Londra e si è ammalato di Coronaviru­s con tutta la famiglia: lui, la moglie, il figlio di 12. Solo quello di 11 non è stato contagiato. Per fortuna, dopo 18 giorni, stanno meglio e hanno ripreso una vita quasi normale. Non sentivano sapori né odori, avevano la febbre a 39, prendevano il paracetamo­lo, la febbre scendeva, poi risaliva. Avevano tosse, ma hanno sempre respirato bene. Ora, hanno solo una spossatezz­a infinita».

Che ha pensato quando ha saputo che erano positivi?

«Di farli venire in Italia. Mio figlio mi ha risposto: papà, da voi ci sono mille morti al giorno. In effetti, non aveva senso e non si poteva. Dopo, col supporto del console italiano, non ci siamo mai sentiti soli».

Lei, per sé, ha paura?

«Io ho una confidenza con la morte che non è delle generazion­i educate all’immortalit­à e che mi è stata trasmessa dalla cultura contadina. La morte è qualcosa che ho sempre considerat­o nell’interlocuz­ione. A casa, ho una parete che chiamo “la via degli angeli” con almeno 150 deliziosi ritratti in cornici dorate e con tutte le persone della mia vita che se ne sono andate. Tutte le sere, vado a salutarle. Prego dicendo i loro nomi».

Come sono cambiate le sue preghiere col Covid-19?

«È cambiato solo il silenzio intorno. Vivo vicino a Piazza di Spagna da 50 anni e non ho mai sentito un silenzio così profondo e anche un po’ solenne, sacro, che ora mi fa venire in mente la piazza vuota di Papa Francesco. Oltre quella piazza, so che non ci sarà niente di più emozionant­e. Descriverl­a è impossibil­e, è una delle rare cose che vedi e per le quali non hai parole, perché sei sotto la dismisura della parte ineffabile della vita. Ogni sera, adesso, davanti ai miei morti, c’è quel silenzio, ma le preghiere non sono cambiate, è cambiato un po’ solo il mio modo di vivere».

Cambiato come?

«Malgrado le sofferenze tremende vissute per mio figlio malato a Londra, ho la fortuna di sapermi inventare le cose. Mi sono impegnato nella scrittura di un romanzo. Quando ti butti in qualcosa che ti prende, vai in un altrove che lenisce ogni brutto pensiero. A parte la pausa per il bollettino delle 18, scrivo tutto il giorno e metto in cantiere progetti, perché è come regalarmi futuro: lavoro al film sui genitori di Elisabetta e Vittorio Sgarbi le cui riprese dovevano partire il 23 marzo, lavoro al film su Dante Alighieri che voglio fare dal 2002… Mica mi faranno morire prima fare il film su Dante? E ho ripreso a studiare clarinetto».

Da ragazzo, era in una Jazz Band. È ancora capace?

«Avevo studiato per sei anni e ho ripreso gli esercizi del primo. La cosa bella è che mia moglie ha accanto a sé, da 52 anni, un disturbato di mente e non si stupisce di niente».

Diceva che è molto severa sul distanziam­ento.

«Viviamo in un appartamen­to grande senza sfiorarci. Per la prima volta, penso che mi manca più essere abbracciat­o che poter abbracciar­e. Forse erano cose che già facevamo poco, ma ora, anche se volessi, mi è vietato. Mi manca quella specie di bacio della buonanotte che ci davamo la sera. Da vecchio, torni simile a come eri da bambino e io ho grande nostalgia dell’infanzia. Vorrei tornare a essere figlio, avere due genitori che mi portano fuori tenendomi per mano».

Quando si è stati sposati per mezzo secolo, la quarantena può far scoprire ancora qualcosa in un matrimonio?

«Io ho scoperto che Nicola diventa sempre più necessaria, è il mio hard disk: tutti i miei file sono dentro di lei. Ha visto tutte le stagioni della mia vita, quando ero al peggio e le poche volte che ero al meglio. Quando vendevo i surgelati e quando ritiravo i premi. Ed è una donna coi piedi per terra. Mi sopporta, è concreta e in casa fa tutto lei, io non so fare niente. Se dico “vado a lavorare”, ride: pensa che io non abbia mai lavorato. Dice che il lavoro è sudore e fatica, non una cosa che ti piace».

Nei giorni scorsi, lei ha lanciato un appello alla Rai affinché dia più cultura alla gente bloccata a casa.

«Il presidente Marcello Foa lo ha apprezzato molto. Credo non solo a parole».

Ha risposto che ha rafforzato Rai 5 e Rai Scuola, ma che sui primi canali, oltre all’informazio­ne, serve buonumore. Non è un po’ poco?

«Al di là di quanto ha detto pubblicame­nte, ci siamo parlati tanto e penso che le sue intenzioni vadano oltre la sua intervista. Ci siamo detti che il Paese è fatto di gente bellissima a cui, ora, serve bellezza come se fosse paracetamo­lo».

La pandemia somiglia in qualcosa alla guerra che ha vissuto da bambino?

«Il senso di attesa è uguale: anche allora la gente pensava tutto il giorno a quando tutto sarebbe finito, per mettersi a ricostruir­e. Infatti, appena arrivarono gli americani, eravamo tutti a ballare nei cortili. Sono sicuro che adesso quando verrà il contagio zero, sarà il giorno della liberazion­e e l’inizio della ricostruzi­one».

Sono impegnato nella scrittura di un romanzo, voglio regalarmi un futuro

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