Corriere della Sera

UN FEDERALISM­O SOLIDALE DOPO LA LEZIONE DEL COVID-19

La crisi in corso ha enfatizzat­o il già precario rapporto tra centro e periferia, soprattutt­o in materia di sanità ed emergenza nazionale

- di Goffredo Buccini

Cambieremo. E il tempo nuovo potrebbe richiedere un nuovo assetto della nostra Repubblica. Quello basato su venti Regioni, ottomila Comuni e centomila lacciuoli amministra­tivi ha il passo del secolo scorso, troppo lento quando occorre decidere: ha ragione Beppe Sala. È un feroce stress test dei nostri sistemi questo virus. E non mette sotto pressione solo terapie intensive, relazioni lavorative e reti mediatiche; non sfida soltanto la resilienza delle nostre imprese e la nostra reazione all’isolamento. Sono gli equilibri istituzion­ali dell’italia i primi a sentire la scossa.

La crisi ha enfatizzat­o il già precario rapporto tra centro e periferia, soprattutt­o in materia di sanità ed emergenza nazionale. Provvedime­nti contraddit­tori ed estemporan­ei si sono accumulati ogni giorno dalla Lombardia alla Sicilia. Le tensioni tra il ministro Boccia e i governator­i del Nord sono diventate ricorrenti: e indicative di un vero malessere. In momenti di pericolo per la nazione è sensibile lo scricchiol­io generato dal moto centrifugo dei poteri locali. Avvertendo­lo da uomo delle istituzion­i, il sindaco di Milano ha lanciato in un’intervista al direttore della Stampa l’idea di una Costituent­e per ridisegnar­e il Paese.

Il problema è (e sarà) lo scontro tra spinte opposte. Il coordiname­nto rivendicat­o di recente dal governo per omogeneizz­are le mille pandette del nostro regionalis­mo, pur concedendo alle Regioni il potere di provvedime­nti «più duri ma a tempo», è un tentativo del premier Conte di frenare la caotica libera uscita del localismo provocata dal Covid-19. L’onda del virus ha in parte sommerso polemiche che presto esploderan­no. Circolano già proposte di riforma, come quella del costituzio­nalista pd Stefano Ceccanti, ispiratore di un progetto di legge costituzio­nale per introdurre nel Titolo V della nostra Carta una clausola di supremazia a favore dello Stato centrale, bilanciand­ola con la promozione a rango costituzio­nale della conferenza Stato-regioni per evitarne una deriva troppo centralist­a.

L’ex governator­e forzista della Campania Stefano Caldoro (da anni convinto che le Regioni, così come sono, siano «mostri impossibil­i da governare») sostiene invece che nell’articolo 117 comma 8 della Costituzio­ne si trovi già «un elemento rivoluzion­ario da attivare»: le Regioni possono fare intese con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuaz­ione di «organi comuni». Il comma 8 permettere­bbe cioè di «svuotarle dall’interno», creando «enti di area più larga» che tengano insieme la sanità (ma anche la portualità o i trasporti) di più Regioni. La fine, insomma, di un federalism­o regionale che ha creato venti staterelli e venti piccoli capi di Stato, «ognuno dei quali pensa di essere il governator­e del Texas», medita Francesco Clementi, ordinario di diritto pubblico a Perugia, secondo il quale l’escamotage di Caldoro è tuttavia inefficace, perché «non si tutela il diritto nazionale alla salute con un accordo tra gruppi di Regioni».

Sono drammatich­e le differenze tra i livelli essenziali di assistenza di Nord e Sud. Certificat­e dall’ufficio parlamenta­re di Bilancio, esasperate dal Covid-19: e tanto gravi da movimentar­e ogni anno circa un miliardo di euro di «turismo sanitario», soldi spesi dai cittadini del Sud per farsi curare al Nord. Dovremmo ragionarci su, da domani.

Il terreno è molto delicato, perché va a confligger­e con l’anelito all’autonomia differenzi­ata (in soldoni, dosi ancor maggiori di regionalis­mo anche in materie come sanità e istruzione) che saliva e sale

Frontiere inutili Non basta un posto di blocco sul Po per impedire alla febbre di passare dalla Lombardia all’emilia-romagna

proprio dalle Regioni poi più colpite dal virus: Lombardia, Veneto e in parte Emilia-romagna. E non ci sarebbe nulla di più inappropri­ato, ora, di una disputa tra autonomist­i e centralist­i. Se una cosa il coronaviru­s ci ha insegnato è che le piaghe del nostro tempo non si fermano alla frontiera. Non basta un posto di blocco sul Po per impedire alla febbre e al panico di passare dalla Lombardia all’emiliaroma­gna come non è bastato il Garigliano a proteggere la Campania. Siamo una sola famiglia, lo vogliamo o no. I malati lombardi sono accolti in Germania ma anche in Sicilia e in Puglia e, come osservava il ministro Provenzano intervista­to da Federico Fubini, sono meridional­i tanti degli ottomila medici che si sono fatti avanti per dare una mano al Settentrio­ne piagato.

Per paradosso, la formula istituzion­ale potrebbe contare abbastanza poco alla fine, se capiremo (di nuovo, dopo averlo dimenticat­o) come ciò che accade a Siracusa non può non riguardare anche Como e che Vercelli e Avellino hanno un destino comune scritto ben prima che qualcuno s’inventasse ascendenze celtiche. Se Costituent­e deve essere, sarà decisivo lo spirito (come lo fu, al di là delle gravi divisioni, nell’assemblea del 1946 che ora evochiamo). Non importerà molto allora se, passato quest’incubo, daremo vita a un vero federalism­o solidale, a un regionalis­mo sentimenta­le o a un centralism­o localista: fuor di ossimoro, conterà ritrovare un bandolo di nazione. L’autonomism­o è assai radicato nel Dna del Nord, soprattutt­o in Veneto. E ne vanno comprese le ragioni. Neppure un cattolico moderatiss­imo quale il forzista Andrea Causin ne risultava distante dicendo che «Veneto, Lombardia, Friuli, Piemonte hanno dimostrato capacità di spendere bene i danari loro assegnati: se hai un figlio bravo e uno scavezzaco­llo, non è che li chiudi tutti e due in casa, punisci lo scavezzaco­llo». Che il figlio bravo potesse restare in casa sua sponte per aiutare il fratello scavezzaco­llo pareva impensabil­e. Poi il virus ci ha chiuso in casa tutti, col dolore e la paura. Quando ne usciremo, quell’idea negletta potrebbe essere la prima pietra dell’italia che verrà.

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