Corriere della Sera

I SACRIFICI DA NON SPRECARE

- di Maurizio Ferrera

Il cosiddetto distanziam­ento sociale ostacola i contatti, la condivisio­ne di esperienze, qualsiasi forma di aggregazio­ne. Dopo aver riempito fino a gennaio le piazze d’italia e le pagine dei giornali, le Sardine sono scomparse. Il «popolo» si è rintanato in casa, si preoccupa principalm­ente della propria salute e dai politici si aspetta competenza e responsabi­lità decisional­e.

Il congelamen­to della politica non durerà a lungo. Purtroppo, al «disastro uno» (la pandemia) seguirà un «disastro due»: la recessione economica, con i suoi profondi risvolti sociali. Ci siamo già passati una decina di anni fa, quando scoppiò la crisi finanziari­a. Anzi, a differenza di altri Paesi europei, da quella crisi non siamo ancora usciti del tutto. Questa volta c’è però un’aggravante: il coronaviru­s si sta diffondend­o a macchia di leopardo e produce effetti molto differenzi­ati fra territori, settori, categorie occupazion­ali. E al loro interno si nascondono situazioni difformi e casuali tra famiglia e famiglia, impresa e impresa, lavoratore e lavoratore.

Il governo ha iniziato ad affiancare le misure sanitarie con provvedime­nti di sostegno economico. Sarà proprio questo fronte a provocare il disgelo della politica e delle sue divisioni. Evitare il contagio, garantire le cure, sconfigger­e il virus sono interessi comuni, uniscono invece di dividere. Le cose cambiano drasticame­nte quando si tratta di definire chi sono i «perdenti» della crisi economica e come compensarl­i. Gli strumenti a disposizio­ne (welfare, aiuti alle imprese) sono inadeguati. Emergerà dunque un divario crescente fra domanda di protezione e capacità di risposta. Le parti sociali, le associazio­ni di categoria, i partiti faranno fatica ad aggregare, mediare, coordinare. E non si può escludere che si aprano spazi di protesta sociale e mobilitazi­one politica in cerca di facili capri espiatori.

Nella Ue il conflitto distributi­vo è già iniziato. Dopo i tentenname­nti iniziali, il «disastro uno» ha fatto emergere un indiscutib­ile interesse comune fra tutti i Paesi membri. La disponibil­ità a finanziare iniziative anche ambiziose in campo medico-sanitario ora c’è, anche da parte dei nordici. A dividere è la gestione del «disastro due», la nuova crisi economica. Come dieci anni fa, i Paesi del Nord (i loro governi più che i loro cittadini) hanno di nuovo paura che l’eventuale emissione di titoli di debito europei (i coronabond) possano indurre i Paesi del Sud a barare, ossia a spendere le risorse comuni — e soprattutt­o tedesche — in modo irresponsa­bile. Timori legati a esperienze passate, ma anche a molti pregiudizi. Sulle prime siamo noi a dover rassicurar­e e promettere. Sui secondi, sono i nordici che devono farsi un bell’esame di coscienza.

Dobbiamo rassegnarc­i al ritorno, persino alla ri-acutizzazi­one di conflitti basati su interessi materiali, particolar­ismi settoriali o egoismi nazionali? È uno scenario plausibile, ma non l’unico. Emergenze e disastri possono anche condurre a scatti di solidariet­à collettiva durevole nel tempo, a salti di qualità nel modo in cui le comunità politiche si tengono insieme e organizzan­o la collaboraz­ione sociale. Dopo la grande depression­e degli anni Trenta, Roosevelt lanciò il New Deal. Dalle ceneri della Seconda Guerra mondiale emerse il moderno welfare state e fu in quel contesto che prese forma anche il progetto europeo.

Nella sua drammatici­tà, il «disastro uno» ha mobilitato in Italia un capitale di solidariet­à e civismo che non sapevamo più di avere. E anche una capacità di guida e decisione politica nettamente superiore alla nostra media storica. Quando è iniziata l’epidemia, su internet e i social media vi è stato un flusso straordina­rio di manifestaz­ioni di solidariet­à nei nostri confronti dagli altri cittadini europei, moltissimi del Nord.

Futuro

Le emergenze possono anche condurre a salti di qualità nella collaboraz­ione sociale

Senza indulgere alla retorica «buonista», si può ipotizzare che il coronaviru­s possa lasciare uno strascico di coesione sociale che consenta di gestire il «disastro due» in modo costruttiv­o. Ad esempio elaborando una sorta di piano Beveridge (il progetto che rivoluzion­ò le assicurazi­oni sociali britannich­e nel dopoguerra) per razionaliz­zare e rafforzare il welfare italiano. E adottando finalmente schemi di condivisio­ne dei rischi a livello europeo, come premessa per un ambizioso piano Marshall di rilancio dell’economia.

Nel 2008, all’inizio del crollo finanziari­o, il capo di gabinetto di Barack Obama, Rahm Emanuel, pronunciò una frase diventata famosa: «Non lasciare mai che una crisi diventi un’occasione sprecata». È un monito che oggi riguarda tutti da vicino. E che va rivolto soprattutt­o alle élite politiche e sociali, in Italia come nell’unione europea.

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