Corriere della Sera

C’è un posto del mondo (e siamo noi) di Sandro Veronesi

Si chiama «Qui» il poemetto di Sandro Veronesi sui giorni difficili dell’epidemia Un testo che arriva dopo quello scritto per «la Lettura» e che dà il via al diario condiviso dell’emergenza. In attesa di passare il testimone a Mauro Covacich

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C’è un posto del mondo in cui il mondo non è più il mondo e questo posto è qui. Nella nostra casa, per chi ha una casa, il mondo non è più il mondo.

Nelle stanzucce spoglie dove muoiono i

vecchi, cento volte al giorno, e poi altre cento, e poi ancora cento, il mondo non è più il mondo

– e sono i nostri genitori già morti che muoiono di nuovo, tutti insieme, tutti i momenti, ancora e ancora, muoiono di nuovo, mansuetame­nte, in silenzio, a pancia in giù, perché non sappiamo proteggerl­i, anche se fino a ieri, quando il mondo era

il mondo, quando sono morti per la prima volta, lo sapevamo fare, e lo facevamo, e ci toglievamo il sonno, e il pane dalla bocca, per la gioia di proteggerl­i; c’è questo posto maledetto del mondo nel quale i nostri vecchi muoiono, e noi non sappiamo nemmeno dove mettere

i loro corpi, dove ammassarli, dove bruciarli, dove

seppellirl­i, e questo posto è qui.

Negli ospedali strapieni, nelle chiese vuote, nelle piazze deserte, nei parchi chiusi con

le catene, nei negozi serrati, nei supermerca­ti presi

d’assalto, nelle code ordinate e nelle code disordinat­e, nelle carceri sovraffoll­ate, dove nessuno può più ricevere il pacco con gli spaghetti, le sigarette e il caffè da dividere coi compagni di cella che non hanno nemmeno quello; nelle scuole senza caciara, nei campi di calcio senza pallone, nelle autostrade senza macchine, negli aeroporti senza viaggiator­i, nei confession­ali senza peccatori, e nell’immagine blu di Papa Francesco che prega, solo, al vespro, sotto la pioggia di marzo

– in quella Piazza San Pietro senza fedeli il mondo non è più il mondo.

Nello strazio della voce di Bob Dylan che riemerge dopo otto anni, e canta per diciassett­e minuti la morte di un padre che non abbiamo saputo

proteggere, e tutti noi piangiamo per quella voce, ma quella voce non è più quella voce, e quello strazio non è più quello strazio e quel padre non è più quel padre, perché il mondo non è più il mondo.

Nei numeri dati a cazzo di cane, alle sei di pomeriggio, ogni giorno, prima i guariti, per dare un segnale

di speranza, poi i malati e infine, purtroppo, i deceduti, e i deceduti sono mille, sono mille, i deceduti, in un solo giorno, sono mille; nel paragone con l’essere in guerra, siamo in guerra, è una guerra, bollettino

di guerra, e invece non siamo affatto in guerra, perché non ci viene chiesto di combattere né di dare i nostri figli alla patria, ma solo di restare tappati in casa, di restare lontani, di restare separati, di temere gli uni gli altri, di diffidare gli uni degli altri; nell’ordine di non indossare la mascherina, poi di indossarla, sì, ma non quella, quell’altra, di lasciare quella a medici e infermieri, come se a loro l’avessimo strappata dal volto, e invece l’abbiamo comprata in farmacia quando ancora dicevano che non serviva, ma lo dicevano indossando la mascherina; nell’accusa, implicita e a volte anche esplicita, di essere noi i colpevoli di tutto perché non sappiamo fare delle cose tanto

semplici

– non uscire a respirare l’aria aperta, non toccare le persone che amiamo, non ricongiung­erci con i nostri cari, non prenderci cura di loro, non correre, non passeggiar­e, non prendere

il sole, e veniamo accusati, inchiodati, tracciati, con i droni, con le celle dei telefonini, e puniti esemplarme­nte, come i soldati di Caporetto che furono cacciati come animali, e fucilati come criminali, perché fuggivano dagli errori dei loro generali. C’è un posto del mondo in cui accade questo e i bambini non sono più fragili, non si

ammalano più, e sono asintomati­ci, e per questo pericolosi, e in questo posto il mondo non è più il mondo, e questo posto è qui.

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