«Il pasto vegano è un diritto» Il giudice dà ragione alla maestra
Bologna, il caso nato in mensa. «Le sue idee sono tutelate dalla Costituzione»
BOLOGNA Non si può discriminare un vegano a tavola. Avere assicurato in una mensa scolastica il pasto che rispetti la scelta etica di chi per convinzione filosofica ha eliminato dalla dieta qualsiasi alimento di provenienza animale, è un diritto. Come quello riconosciuto a un musulmano o a un buddista, e in generale a tutti quelli per cui è fatto divieto dalle proprie religioni o convinzioni di mangiare un determinato cibo e che devono quindi poter trovare un’alternativa.
L’ha stabilito con una sentenza quasi unica nel suo genere Filippo Palladino, giudice del tribunale di Bologna, dando ragione all’insegnante di una scuola primaria statale della città.
La maestra, vedendosi arrivare davanti tutti i giorni piatti dedicati ai vegetariani, o rispettosi dei precetti delle varie religioni, si è sentita discriminata in mancanza di una scelta vegana dedicata e ha preteso una possibilità di menu anche per lei. Non solo e non tanto per evitare di portarsi tutte le volte il pasto da casa, ma soprattutto per affermare un principio e il conseguente diritto, senza fermarsi quando durante il giudizio il Comune le ha assicurato il servizio.
Un diritto riconosciuto perché, secondo quanto deciso dal magistrato, il regime vegano «appare determinato da convinzioni di natura filosofica o religiosa che appaiono meritevoli di tutela nell’ambito di ampio riconoscimento del diritto alla libertà di pensiero riconosciuto dalla Costituzione italiana».
«È una pronuncia innovativa — esulta l’avvocato Franco Focareta, che ha assistito la maestra in tribunale — mi risulta un precedente simile soltanto in Inghilterra. Si è equiparata la pratica vegana a una scelta filosofico-religiosa, con un’interpretazione estensiva dei motivi di discriminazione all’interno di una normativa basata sul principio di tassatività dei motivi stessi. È la prima volta che un vegano viene considerato alla stregua di chi richiede il rispetto di una pratica religiosa o filosofica».
L’insegnante — che nella sua battaglia era stata sostenuta anche dalla Camera del lavoro e dalla Flc-cgil — aveva più volte cercato di risolvere la questione sul piano sindacale. Inutilmente. Aveva finito per trovarsi davanti quello che il suo avvocato definisce «un muro di gomma, alzato dal rimpallo delle responsabilità tra i vari soggetti, prima dall’ufficio scolastico al Comune, poi dal Comune all’azienda che forniva i pasti».
Quando l’amministrazione comunale, chiamata a rispondere dal ministero dell’istruzione in quanto ente che gestisce il servizio mensa, ha assicurato un menu completamente vegetale alla trentenne per chiudere la questione la risposta è stata continuare «nell’interesse di tutti, perché il giudice affermasse se c’era o no il diritto», spiega ancora Focareta.
«Non ci interessava certo il risarcimento simbolico di ottocento euro che è stato riconosciuto e che adesso il Comune dovrà pagare a rimborso della cifra calcolata per le spese destinate ai pasti da quando la mia assistita ha avanzato la richiesta». Anche la Cgil esulta per una sentenza che definisce innovativa. «L’assimilazione — fanno notare dal sindacato — era indispensabile per poter accedere alla tutela anti-discriminatoria».
La decisione La scelta alimentare è stata equiparata a convinzioni di natura filosofica o religiosa