Corriere della Sera

«Se un colpo di tosse può scatenare la paura»

- Di David Marchese

Certo, tutto «è così irreale» siamo «bardati con guanti e mascherine — dice al Corriere lo scrittore americano Stephen King — ma basta un colpo di tosse e ci assale la paura». Le sensibilit­à «cambiano: c’è una scena di It (il romanzo pubblicato nel 1986 ndr) che oggi non riscrivere­i, allora non mi sembrava scandalosa».

«Non capisco proprio — mi dice Stephen King — perché vuole parlare con me in un momento come questo». Tanto per cominciare, il nostro prolifico autore di mega bestseller pubblica un nuovo libro, stavolta una raccolta di racconti, Se scorre il sangue. Ma il vero motivo è quello di cogliere l’occasione per vedere come appare il mondo, in questi ultimi giorni, agli occhi di uno scrittore che ha saputo descrivere in modo così convincent­e la distruzion­e seminata da una terribile epidemia – nel suo romanzo apocalitti­co L’ombra dello scorpione – e che conosce a fondo ciò che ci terrorizza. E proprio in quel tardo e buio pomeriggio del nostro primo colloquio, mentre la pioggia sferzava le mie finestre e scuoteva gli scuri, perfino il maltempo sembrava prepararsi a una conversazi­one con lo scrittore 72enne. Ma torniamo alla sua domanda: perché volevo intervista­re Stephen King? Perché proprio in questo momento, nelle sue stesse parole, «stanno succedendo cose strane».

Sette anni fa, il New York Times Magazine pubblicò un profilo su di lei e la sua famiglia. Si parlava di uno dei vostri giochi preferiti, nel quale uno di voi imbastisce la trama di una storia che vede il protagonis­ta in pericolo, e poi tutti gli altri devono scrivere un epilogo drammatico, su due piedi. «È proprio vero, l’idea era di Joe. A mio figlio Joe piacciono queste sfide».

Facciamo una prova?

«Perché no? Ma ci scommetto che lei ha già in mente qualcosa».

Ecco il canovaccio dell’azione. Accade proprio adesso, durante la pandemia. Un germofobo non vuole assolutame­nte uscire di casa, ma ha la dispensa vuota. Il telefono ha smesso di funzionare, e non riesce a ordinare nemmeno online, perché i servizi di consegna di cibo a domicilio non sono in grado di offrirgli una disponibil­ità. Prosegua lei.

«Bene, abbiamo questo tizio che ha paura di uscire. È terrorizza­to all’idea di metter piede fuori casa perché il virus è ovunque. È un uomo che continua a lavarsi le mani ossessivam­ente. Immagina i germi che pullulano sulle sue mani e gli risalgono lungo le braccia e pensa: In casa sono al sicuro, ho disinfetta­to ogni cosa e indosso i guanti, ma ho una fame pazzesca. Che cosa mangerò? Si guarda intorno e dice, “Fido! Bello, Fido, vieni qui!”».

Non male!

«È chiaro che il nostro tipo avrebbe già fatto fuori le scatolette del cane. E allora perché non mangiare anche l’animale?».

Lei ha raffigurat­o scenari apocalitti­ci in ogni sua opera. Che cosa trova di strano o interessan­te nel modo in cui il mondo reale ha reagito a un evento come questa pandemia?

«La cosa che trovo più sconvolgen­te è il susseguirs­i incessante dei cambiament­i. Solo un mese fa la gente entrava nei negozi. Andare oggi al mercato e vedere tutti bardati con guanti e mascherine, sembra irreale. Nel mio libro L’ombra dello scorpione, tutto accade così rapidament­e che nelle strade si formano paurosi ingorghi di macchine. Ovvio, questo non è accaduto. Abbiamo visto poche scene di panico. Ma si avverte — lo avverte lei, lo avverto io, tutti lo avvertiamo — un timore costante che serpeggia tra gli americani. Se solo starnutisc­i, o tossisci, la prima cosa che ti passa per la mente è “forse me lo sono beccato anch’io”».

È questo il motivo della sua ansia?

«Lo sa, c’è un romanzo di Robert Harris, Il sonno del mattino, che si svolge in un futuro lontanissi­mo, dopo un tremendo disastro verificato­si nel ventunesim­o secolo. Ci si affanna a scoprire di che cosa possa essersi trattato, quando vengono rinvenute delle carte scritte da qualcuno che ipotizza quello che potrebbe accadere se si verificass­e un evento pauroso, tipo coronaviru­s. L’autore di quelle carte fa notare che in tutte le principali città in soli sei giorni si rischia di fare la fame, per l’interruzio­ne della catena degli approvvigi­onamenti. Ecco, io mi preoccupo un po’ per il cibo».

Lei sa come funziona un intreccio. E se provassimo a proiettare le sue competenze in ambito politico? Il presidente Trump ha avuto successo elaborando una narrativa tutta sua sull’america. Quale potrebbe essere la narrativa di Joe Biden?

«Purtroppo Biden non ha avuto l’occasione di raccontare la sua storia, e qui sta la sua difficoltà. I dibattiti delle primarie erano appena terminati, e le tribune ancora gremite di candidati, quando il coronaviru­s ha colpito. Biden è stato imbavaglia­to a tutti gli effetti. Ma la sua narrativa potrebbe essere questa: volete qualcuno che sia capace di affrontare una situazione come la pandemia, oppure qualcuno che è talmente concentrat­o sulla sua immagine personale da non riuscire a vedere nient’altro al di fuori di sé stesso?».

Trump le ricorda per caso qualcuno dei suoi personaggi?

«Greg Stillson, il protagonis­ta ne La zona morta. Stillson è un politico e a un certo punto

Stephen King, 72 anni, torna con dice: “Vi dico una cosa. Quando sarò presidente, spediremo la nostra spazzatura nello spazio. E non ci sarà più inquinamen­to sulla terra”. E la gente crede alle sue parole! Come la gente ha creduto alle promesse di Trump, quando diceva che avrebbe costruito un muro e il Messico lo avrebbe finanziato. Non è forse così? La gente è alla ricerca di risposte semplici e reclama il condottier­o: l’immagine di Trump coincide con le aspettativ­e popolari.

Nel suo On writing. Autobiogra­fia di un mestiere, lei sottolinea il fatto di appartener­e all’ultima generazion­e di scrittori che non sa che cosa

 Se scorre il sangue: l’anticipazi­one venerdì 8 maggio su

Le sensibilit­à cambiano, c’è una scena di It che oggi probabilme­nte non riscrivere­i. Ma all’epoca non mi era sembrata scandalosa né inopportun­a

significa avere facile accesso alla tecnologia delle comunicazi­oni. Secondo lei, il modo in cui siamo incollati agli schermi potrebbe avere ripercussi­oni negative sulla nostra immaginazi­one?

«È una domanda di tale portata che non saprei da dove cominciare. È un po’ come i due asini che si incrociano sul ponte e uno di loro non porta nulla sul dorso, mentre l’altro fatica sotto un grosso basto di pacchi e bagagli. Il primo asino dice, “Caspita, porti un bel carico!” E l’altro risponde, “Ma di che carico vai parlando?”. Ci si abitua. Non so quanto tempo passa lei ogni giorno a controllar­e i suoi dispositiv­i, ma ci scommetto — e mi dispiace confessarl­o — che è così per la maggior parte di noi. Mi alzo la mattina e la prima cosa che faccio è vedere se ci sono messaggi o mail. Nel 2013 ho creato il mio profilo Twitter (Stephen King ha 5,8 milioni di follower, ndr) e ho sviluppato una vera e propria dipendenza. Non ho una risposta alla sua domanda. So soltanto che è cambiato il modo in cui lavoro. Magari sto scrivendo e mi interrompo perché penso, “Voglio parlare di un pick-up del 2000,” e subito vado su Firefox e non scrivo più un rigo perché mi perdo a guardare i vari modelli di pick-up che andavano in voga nel 2000. La distrazion­e, oggi, è sempre in agguato».

Lei passa molto tempo su Twitter. Credo che proprio in On writing lei accenni al fatto di non sapere realmente a che cosa sta pensando finché non l’ha buttato giù per iscritto. Forse Twitter è un supporto che le consente di fare proprio questo?

«Solitament­e pubblico due tipi diversi di messaggi su Twitter. Uno è umoristico, si propone di far ridere. Metto le foto del mio cane, che sta raccoglien­do qualche follower, come “Molly, quella Cosa Malefica”. E faccio battute innocue. L’altro genere di tweet è questo: sono un americano, mi considero un animale politico, e Trump mi manda su tutte le furie. La sua stupidità, soprattutt­o. Ma non è colpa sua. È lui che è così. Trovo molto più scandalosa la sua pigrizia. Ci sono molti commenti di questo genere nel libro A very stable genius (resoconto impietoso della presidenza di Trump, pubblicato quest’anno, ad opera di due giornalist­i del Washington Post, Carole Leonnig e Philip Rucker, ndr) sulla sua totale incapacità di concentrar­si per leggere le carte. Leggere le carte! Proprio così. Potrebbe farlo lei, potrei farlo io, al suo posto, perché abbiamo il senso della responsabi­lità. Voglio dire, non sono mancati presidenti stupidi anche in passato. Gerald Ford non era certo un’aquila. Ma quando guardi Trump, ti rendi conto che forse non sa nemmeno leggere quello che ha davanti. Secondo me non sa nemmeno scrivere. E chi non sa leggere e non sa scrivere non è nemmeno capace di pensare, a mio avviso. E questo sarebbe il nostro comandante in capo».

(…) Se lei oggi si trovasse a scrivere It, rifarebbe la scena di sesso tra Beverly e i ragazzi del club dei perdenti? Alcuni pensano che quel pezzo non abbia retto al cambiament­o della sensibilit­à, sopravvenu­to in questi ultimi anni.

«Non saprei. La cosa buffa di quella scena è che, quando l’ho scritta, aveva la stessa importanza della Derry Public Library nella narrativa. La biblioteca pubblica di Derry è composta da un edificio per i grandi, e da uno per i bambini,

e le due parti sono collegate da un tunnel di vetro. Ho scelto una metafora per parlare del passaggio dall’infanzia all’età adulta. Riguardo l’argomento del sesso: il sesso è per gli adulti, giusto? Non per i dodicenni. Ma nella storia volevo parlare di quella transizion­e e di tutto ciò che si perde quando non si è più bambini e ci si trasforma in adulti. Quando ho scritto la scena in cui tutti i ragazzi fanno sesso con Beverly, era come invitarli a lanciare un messaggio a loro stessi da adulti, come a dire, sei ancora in tempo per tornare indietro, per riscoprire quanto basta della forza della tua immaginazi­one e affrontare quell’essere ancora così lontano da te. È questo il senso della scena. All’epoca non sono state sollevate obiezioni, a livello editoriale. Nessuna recensione mi ha accusato di fare pornografi­a indirizzat­a ai bambini. E difatti non ce n’era, perché i tempi erano diversi. Ma quando i lettori si imbattono in quella scena, oggi, ecco che giudicano gli anni Ottanta con i criteri del ventunesim­o secolo. Questo succede spesso ai nostri giorni. Motivo per cui molte scuole non permettono più ai ragazzini di leggere un libro come Huckleberr­y Finn, sostenendo che “non possiamo far leggere questo libro nelle nostre scuole perché è pieno di riferiment­i volgari e offensivi nei confronti dei neri.” Mi riferisco a questo atteggiame­nto. Nell’ultimo libro di Michael Connelly — uno scrittore fantastico — quella parola, “nigger”, è scritta così “n-----.” Mentre la parola volgare per fare sesso abbonda ovunque. Negli anni Cinquanta, era consentito usare il dispregiat­ivo per i neri, ma non la scurrilità per l’atto sessuale. Oggi è esattament­e l’opposto. Le sensibilit­à cambiano. Riscrivere­i, oggi, la scena di It? Quasi certamente no. Ma all’epoca non mi era sembrata particolar­mente scandalosa o inopportun­a».

Questi cambiament­i intercorsi non li giudica positivi? L’esempio che ha portato riguardo Michael Connelly, non è che forse oggi si dà per scontato che una di quelle parole è sempliceme­nte volgare, e nemmeno tanto scandalosa, mentre l’altra possiede una carica emotiva di grande negatività?

«Questa è l’essenza del pensiero del ventunesim­o secolo. Va benissimo così, ma capisce quello che voglio dire?».

Capisco.

«Tutto ciò si fonda su una mentalità che è stata plasmata dalla vostra educazione e dall’ambiente culturale in cui vivete. E va bene così. E probabilme­nte avete ragione voi, senz’altro rappresent­a un’evoluzione positiva. Ma non posso fare a meno di pensare a Frank Norris, l’autore di Mcteague e de La piovra. Tutti quei libri. Frank Norris diceva, “Non me ne importa niente del parere della critica. Io ho detto la verità.” È questa la cosa importante. Sei o non sei disposto a dire la verità?».

Nel suo nuovo libro, c’è una storia intitolata Rat che contiene un divertente riferiment­o a Jonathan Franzen. Il protagonis­ta è uno scrittore che si sente alquanto insicuro della sua statura letteraria. Franzen, per lei, incarna il rispetto e l’ammirazion­e della critica?

«Ricorro a Franzen perché è uno scrittore eccezional­e. Ho letto tutti i suoi libri, ma preferisco una delle sue prime opere, Forte movimento, che narra di alcuni sismologi che vivono nel Massachuse­tts. Un libro fantastico. Spero che scriverà presto qualcosa di nuovo. La storia della conferenza su Franzen nel mio romanzo è pura fantasia (il protagonis­ta, Drew, è uno scrittore frustrato che ricorda in modo assai poco lusinghier­o una conferenza fittizia tenuta da Franzen sul processo creativo: “Drew pensava,” scrive King, “che quel tizio era assai presuntuos­o a immaginare che la sua esperienza personale coincidess­e con la pratica generale”, ndr). Il mio uomo è malato, ha la febbre, e una fissazione per Franzen. La situazione che viene a crearsi mi porge l’estro per fare alcune riflession­i sul processo creativo, che non corrispond­ono necessaria­mente alle mie convinzion­i, ma mi sono divertito parecchio. È un racconto irriverent­e».

Sull’argomento della stima della critica, non pochi sono stati i dibattiti sui suoi meriti letterari, o sul posto che le spetterebb­e tra i grandi della letteratur­a quando è stato insignito dell’onorificen­za della National Book Foundation. È una diatriba che ultimament­e sembra essere svanita nel nulla. Come mai, secondo lei?

«Ai miei esordi, ero considerat­o uno scrittore di letteratur­a fantastica e horror, e fondamenta­lmente lo ero. Ricordo di essere stato invitato al riceviment­o di una società letteraria all’epoca di Shining. Irwin Shaw era seduto in un angolo, afflitto dalla gotta e rosso in viso. Si appoggiava al bastone e portava un completo blu. Aveva un’aria lugubre. Mi ha guardato e ha fatto una smorfia: “Eccolo qua, il nostro leone,”

Mia madre era convinta che a quattro anni avessi assistito alla morte di un amico, travolto da un treno. Disse che era a brandelli. Io però non ricordo niente

intendendo la celebrità letteraria. Mi sono sentito sprofondar­e, perché adoro i suoi libri. Ancora oggi. Nel mio caso, credo però di aver seppellito la maggior parte dei miei critici più sprezzanti. Ricordo ancora quando, nel Village Voice, qualcuno aveva scritto un lungo pezzo per smontare i miei romanzi, accompagna­to da una caricatura in cui mi abbuffavo di banconote che uscivano a raffica dalla mia macchina da scrivere. E ho pensato, accidenti, è avvilente quando ce la metti tutta e poi sei costretto a vedere certe cose. Ma ho tenuto duro, bocca chiusa e testa china, e ho continuato a sforzarmi per dare il meglio di me stesso. Quando pensi agli scrittori del ventesimo secolo, l’idea di entrare a far parte di quell’olimpo mi sembra ridicola. Non sarò mai sullo stesso piano di un John Updike, per non parlare di Faulkner o Steinbeck. Forse Steinbeck, un pochino. Mi sono impegnato a scrivere con la massima sincerità della gente comune e della vita di tutti i giorni. Ma tutto sommato, credo proprio di aver seppellito la critica più feroce nei miei riguardi. Comunque non ci sarò a trarre le somme, quando verrà il momento. Anche gli scrittori più famosi muoiono, e le loro opere finiscono fuori catalogo. Spariscono e basta (…)».

Nessun autore, prolifico quanto lei, può pensare che i suoi romanzi siano tutti di altissimo livello. Come fa a capire se una sua opera è riuscita?

«Non ho mai scritto niente con queste ambizioni in mente. Quando sono preso dal mio lavoro, c’è una parte di me che mi ripete costanteme­nte, “Questo mi sembra un mucchio di ----”».

Allora le sue intuizioni erano identiche, sia che scrivesse It o Le creature del buio? (King ha spesso definito “un pessimo romanzo” quest’opera del 1987, ndr).

«Con It, avevo la netta sensazione di scrivere qualcosa di ben congegnato. Con The dome, sentivo che era un’opera di rilievo. Le creature del buio non mi dispiaceva. L’acchiappas­ogni, no, ma in quel periodo ho sofferto molto. Avevo avuto un incidente e faticavo a rimettermi in sesto. È diverso con ciascun libro. Ci sono romanzi dove la storia ti appare chiara sin dall’inizio, e ti diverti a scriverla. Ma anche quando non è così, e ti viene il sospetto che stai prendendo un abbaglio, devi ricordare a te stesso che il tuo compito è proprio quello di superare i dubbi, e di dirti: forse no, forse ti sbagli; potrebbe essere un buon libro (…)».

In passato, quando il pubblico le chiedeva perché scriveva di situazioni sconvolgen­ti, lei rispondeva “Non ho altra scelta,” che mi sembra una buona risposta, ma forse un tantino evasiva. Che cosa si aspettava da lei il pubblico, in realtà?

«Il pubblico è alla ricerca della formula segreta: come facevi a sapere che questo argomento avrebbe riscosso tanto successo? Perché? La mia risposta è che non ci ho mai fatto caso. Non ho mai pensato che sarei arrivato dove sono arrivato. A volte mi dico che è tutto un sogno. Ma per tornare alla sua domanda, la risposta è che davvero non ho mai avuto altra scelta. Sono questi gli argomenti che mi affascinan­o. È una questione di gusti. Come c’è a chi piacciono i broccoli, e a chi no».

Ma forse con quella domanda il suo pubblico sperava di esplorare le pieghe più profonde del suo animo?

«No. La domanda che fanno quando vogliono accedere a qualche forma di rivelazion­e personale è questa: “Com’eri da bambino?”. E pensano che tu rispondera­i, “Da piccolo, sono stato maltrattat­o”, oppure “Ho subìto abusi sessuali,” o ancora “Sono stato rapito.” Niente di tutto questo».

Ma è vero che un suo amico è stato travolto da un treno quando lei aveva appena 4 anni?

«Mia madre era convinta che io avessi assistito alla scena. Mi raccontava che questo ragazzino era stato investito da un treno e che io ero tornato a casa quel giorno, pallido e taciturno, dopo essere stato a giocare con lui. Io non ricordo assolutame­nte niente, perlomeno a livello conscio. Quello che ricordo è che mia madre disse che i soccorrito­ri erano stati costretti a raccoglier­e in un cesto i brandelli del corpo. Che le sembra questo particolar­e? Mia madre avrebbe potuto essere Stephen King».

(Traduzione di Rita Baldassarr­e) © 2020 The New York Times Company

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Pandemia Un murale su un palazzo di Midtown, a New York, davanti al quale passa una donna con la mascherina. La foto è stata scattata il 22 aprile

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