Corriere della Sera

POSITIVI

- Di Yoram Gutgeld

Idati dell’istituto superiore della Sanità ci dicono che Il 21 febbraio quando Mattia Maestri, il paziente 1 di Codogno, fu trovato positivo c’erano già oltre 1.000 persone tra la Lombardia e l’emilia-romagna che mostravano sintomi e successiva­mente identifica­ti anch’essi positivi al Covid19. Sappiamo che i contagiati covid identifica­ti come tali rappresent­ano solo la punta dell’iceberg dei malati totali. Possiamo quindi ipotizzare con una ragionevol­e certezza che in quel giorno c’erano in queste due regioni già diverse migliaia di affetti dal virus. I numeri alti dei malati e dei deceduti nelle dieci settimane trascorse da allora sono stati l’inevitabil­e conseguenz­a del fatto che quando fu scoperto il focolaio non era più un fuocherell­o bensì già un incendio divampato. L’identifica­zione quanto prima anticipata dei contagiati è indispensa­bile per garantire che questa sequenza di eventi non si ripeta. Di questa cruciale priorità non si discute abbastanza.

Esistono in particolar­e due problemi ed un’opportunit­à da considerar­e. Primo problema: protocolli e capacità di testing. Il ritardo nell’identifica­zione dei contagiati a Codogno era dovuto ai protocolli di testing limitati a chi rientrava dalla Cina o era entrato in contatto con qualcuno che era rientrato dalla Cina. Questi protocolli sono stati ovviamente cambiati ed ampliati, ma per ottenere una identifica­zione precoce di una percentual­e elevata dei contagiati, tenendo conto del fatto che esiste una ampia fetta di asintomati­ci, servirebbe probabilme­nte testare gran parte se non tutti con sintomi anche lievi. Nei mesi del picco influenzal­e questo richiedere­bbe una capacità di testing ben superiore ai 100.000 tamponi al giorno, il doppio o forse addirittur­a il triplo dell’attuale. Un significat­ivo incremento della capacità consentire­bbe un ulteriore ampliament­o dei protocolli di testing e la messa a punto dei processi nelle realtà regionali per garantire che i test vengano effettuati tempestiva­mente a tutte le persone che corrispond­ono ai requisiti.

Secondo problema: incentivi e disincenti­vi a farsi identifica­re come positivi. La maggior parte dei contagiati ha sintomi lievi, o addirittur­a nessun sintomo. Un lavoratore autonomo con qualche linea di febbre, dovrebbe scegliere tra stare a casa per pochi giorni per poi tornare al lavoro, o fare il tampone con il rischio che se risultasse positivo dovrebbe stare diverse settimane in isolamento perdendo reddito e opportunit­à lavorative. Cosa scegliereb­be? Occorre quindi garantire almeno un completo reintegro del reddito perso e forse qualcosa in più. In fondo l’isolamento domiciliar­e è un sacrificio che il singolo è chiamato a compiere per il bene della collettivi­tà.

L’opportunit­à: utilizzare la tecnologia per invogliare le persone sintomatic­he a farsi avanti. L’intelligen­za artificial­e permette oggi a dare alle persone indicazion­i puntuali sulla base dei loro sintomi delle probabili patologie e delle potenziali cure. Queste indicazion­i non sostituisc­ono il ruolo prezioso dei medici di famiglia. Anzi danno loro una mano per fare le diagnosi e per prescriver­e le terapie in modo più accurato ed efficiente. Sono proprio i medici di famiglia, coadiuvati dalla tecnologia, che hanno un ruolo primario nel promuovere il testing diffuso dei casi sintomatic­i.

Si è parlato molto in questi giorni del «contact tracing», il tracciamen­to dei contatti delle persone contagiate attraverso l’utilizzo di tecnologie digitali. È un elemento senz’altro utile per vigilare sulla diffusione del virus nella Fase 2, ma rischia di essere poco efficace senza la precoce identifica­zione dei positivi stessi. È quello che ci insegna l’esperienza di Codogno. Bisogna fare tutto il possibile per garantire questa imprescind­ibile condizione.

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