Corriere della Sera

Imitiamo il meglio degli altri

Copiare esempi vincenti è un modo di condivider­e i saperi. E una prova di umiltà

- Marco Balzano

Sappiamo che in Corea del Sud hanno contrastat­o l’epidemia con provvedime­nti e pratiche molto diverse dalle nostre: hanno fatto milioni di tamponi e un uso massiccio della tecnologia. In Veneto e in Emilia-romagna si è proceduto diversamen­te rispetto alla Lombardia: la medicina territoria­le è intervenut­a tempestiva­mente e l’assistenza domiciliar­e è stata ben più capillare. In Danimarca hanno riaperto da poco le scuole: i bambini delle materne sono stati divisi in gruppi e distribuit­i in luoghi tra loro distanti. Si potrebbero fare altri esempi: sulla gestione delle residenze per anziani, sull’approvvigi­onamento alimentare, sull’utilizzo degli spazi aperti... E certamente si potrebbero fare delle comparazio­ni, delle analisi e delle critiche sulle specifiche strategie che senz’altro saranno suscettibi­li di migliorame­nto. Ma, che si prendano i fatti di casa nostra o quelli oltreconfi­ne, si impone comunque la stessa domanda: perché di fronte alla difficoltà e all’incertezza non si dichiara mai di voler copiare una pratica che altrove sembra funzionare? Perché neppure in questa emergenza — quando e dove si può — ci ispiriamo o adottiamo iniziative che poco lontano da noi sembrano dare risultati?

Nel mondo iperconnes­so di oggi riusciamo con facilità a vedere cosa fanno gli altri e non costa molta fatica esaminare quel che accade fuori dal nostro orto. Eppure, a differenza di quanto accade per esempio nel mondo del commercio e delle multinazio­nali, dove condivider­e le cosiddette best practice è un’abitudine consolidat­a, chi governa e chi amministra non sembra trovare mai nulla che possa o che meriti di essere copiato, tanto che di fronte a una domanda semplice, o addirittur­a ingenua, come «perché non lo facciamo anche noi?» pochi sanno dare una risposta chiara e sicura. Così accade anche in questi giorni, che appaiono ancora più estenuanti per come vengono prese le decisioni: ciascuno procede in ordine sparso, ognuno con la sua testa, le sue risorse, il suo portafogli e persino i suoi scienziati, incaponend­osi sulla propria strategia e, anche dove si potrebbe, sdegnandos­i di fare come il vicino di casa che naviga in migliori acque. E se, di fronte all’evidenza o al malcontent­o, si procede a invertire la rotta e si adottano finalmente i provvedime­nti altrui, lo si fa in silenzio, con un vago senso di vergogna e pronti a rivendicar­e primati e paternità.

Sono abituato a guardare il mondo dalle parole e a ragionare partendo dal linguaggio e in questo caso il fraintendi­mento, mi viene da pensare, nasce da ciò che evoca la parola «copiare». Se il significat­o non è in sé negativo — vuol dire «riprodurre», «duplicare» — nella nostra educazione la parola viene da subito rivestita di un’accezione deteriore perché presenta un atto da non commettere o da compiere clandestin­amente. Accade così già sui banchi di scuola, dove la copiatura è demonizzat­a: il bambino impara ad associarla a una specie di furto, in cui si ruba a un altro ciò che, per varie ragioni, non si sa. È raro che si legittimi questo gesto in nome della condivisio­ne del sapere e della solidariet­à tra pari. È raro che si sottolinei come, da un punto di vista pedagogico, copiare sia un modo di apprendere e di lavorare insieme agli altri. Si preferisce inculcare l’idea che dobbiamo farcela da soli e che il sapere sia proprietà privata, come il denaro. Così facendo da questa parola abbiamo eliminato ciò che di buono comprende: lo spirito di collaboraz­ione, l’emulazione, la condivisio­ne.

Non sono semplici ricordi di scuola, sono momenti di formazione che poi condiziona­no la nostra vita adulta. Si finisce, consapevol­mente o no, col credere che copiare sia ciò che non è: una dichiarazi­one di inferiorit­à, una scorrettez­za ai danni di qualcuno, un atto sterile o una trasposizi­one gretta di un metodo, di un’idea, di una pratica. Non è affatto così. Copiare è un’azione piena di umiltà e di intelligen­za, è un riconoscim­ento dei nostri limiti e dei nostri bisogni, della capacità di osservare gli altri e di contenere l’invidia. È la dimostrazi­one che abbiamo ancora da imparare e che gli altri possono insegnarci qualcosa. Non è il copia-incolla del pc, non è la disonestà del plagio, si tratta piuttosto di dialogare con una fonte per conformarl­a alle nostre necessità e per prenderne ciò che di buono contiene. Insomma, copiare è difficile e credere che sia una questione meccanica o di poco conto sarebbe un errore grossolano. E infine sappiamo che non si può sempre copiare perché le situazioni sono molte volte differenti, i presuppost­i spesso diversi, ecco perché delude constatare che, quando è possibile, ci si rinuncia in nome di ragioni quasi sempre individual­istiche, di parte, di consenso e comunque estranee all’interesse collettivo.

Eppure, se avessimo rinunciato a copiare, la storia dell’uomo non sarebbe arrivata fin qui. L’alfabeto che ancora usiamo è stato copiato dai fenici. I greci si accorsero che i fenici sapevano scrivere: il loro sistema funzionava bene e permetteva di tenere la contabilit­à delle merci. I fenici erano abili navigatori per la qualità delle loro imbarcazio­ni e per la loro capacità di governare il mare, certamente, ma erano ancor prima abili commercian­ti perché sapevano scrivere e, grazie a questa invenzione tecnologic­a, riuscivano ad avere una burocrazia che permetteva la gestione e il controllo degli scambi. I greci capiscono subito che si tratta di un’invenzione straordina­ria e non si vergognano di copiarla. Anzi, lo dicono chiarament­e che l’hanno copiata perché le lettere le chiamano phoinichèi­a gràmmata, «segni fenici». Altro che furto o vergogna. I greci però sono un altro popolo, con altre necessità e con un altro sguardo sul mondo. Dunque, il primo uso che faranno di quell’invenzione sarà completame­nte diverso da quello fenicio: adopereran­no l’alfabeto per trascriver­e i poemi omerici, il canto della poesia. Per farlo sentiranno il bisogno di aggiungere le vocali, dunque di trasformar­e e adattare la fonte da cui hanno attinto. Mi sembra un esempio calzante — e ogni studioso saprebbe portarne altri dal suo campo — che restituisc­e la complessit­à dell’azione. Se ancora oggi leggiamo Platone e Dante è soltanto perché qualcuno li ha ricopiati, riconoscen­do la grandezza di parole non sue e l’importanza che arrivasser­o ad altri come un dono e una possibilit­à. I copisti, in tutte le civiltà antiche, occupano i gradini più alti della scala sociale perché non sono meri esecutori, ma custodi di un sapere che contempla un’idea di futuro da trasmetter­e all’umanità.proprio adesso che stiamo scoprendo quanto sia importante lasciare la parola agli esperti, proprio ora che realizziam­o quanto esitare o mettere in campo strategie mal congegnate possa provocare non solo danni ma anche un ingente numero di morti, potrebbe essere di aiuto restituire a certe parole il loro valore più vero, spazzando via quella polvere di pregiudizi­o e di moralismo che ci impedisce di guardarle per ciò che sono: una prova di umiltà, la possibilit­à di un dialogo dell’intelligen­za, un aiuto concreto per ricomincia­re.

Se ancora oggi leggiamo Platone e Dante è perché qualcuno li ha ricopiati

 ??  ?? Modelli Andy Warhol (1928 - 1987) Details of Renaissanc­e Paintings / Sandro Botticelli, Birth of Venus (1984, acrilico e inchiostro su carta). Warhol dedicò una serie di serigrafie alle opere più famose del Rinascimen­to italiano.
Tra queste, la Venere di Botticelli di cui Warhol riproduce soltanto il viso (direttamen­te dall’originale conservato agli Uffizi di Firenze) che poi ricolora con tinte acide di gusto pop
Modelli Andy Warhol (1928 - 1987) Details of Renaissanc­e Paintings / Sandro Botticelli, Birth of Venus (1984, acrilico e inchiostro su carta). Warhol dedicò una serie di serigrafie alle opere più famose del Rinascimen­to italiano. Tra queste, la Venere di Botticelli di cui Warhol riproduce soltanto il viso (direttamen­te dall’originale conservato agli Uffizi di Firenze) che poi ricolora con tinte acide di gusto pop
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