Imitiamo il meglio degli altri
Copiare esempi vincenti è un modo di condividere i saperi. E una prova di umiltà
Sappiamo che in Corea del Sud hanno contrastato l’epidemia con provvedimenti e pratiche molto diverse dalle nostre: hanno fatto milioni di tamponi e un uso massiccio della tecnologia. In Veneto e in Emilia-romagna si è proceduto diversamente rispetto alla Lombardia: la medicina territoriale è intervenuta tempestivamente e l’assistenza domiciliare è stata ben più capillare. In Danimarca hanno riaperto da poco le scuole: i bambini delle materne sono stati divisi in gruppi e distribuiti in luoghi tra loro distanti. Si potrebbero fare altri esempi: sulla gestione delle residenze per anziani, sull’approvvigionamento alimentare, sull’utilizzo degli spazi aperti... E certamente si potrebbero fare delle comparazioni, delle analisi e delle critiche sulle specifiche strategie che senz’altro saranno suscettibili di miglioramento. Ma, che si prendano i fatti di casa nostra o quelli oltreconfine, si impone comunque la stessa domanda: perché di fronte alla difficoltà e all’incertezza non si dichiara mai di voler copiare una pratica che altrove sembra funzionare? Perché neppure in questa emergenza — quando e dove si può — ci ispiriamo o adottiamo iniziative che poco lontano da noi sembrano dare risultati?
Nel mondo iperconnesso di oggi riusciamo con facilità a vedere cosa fanno gli altri e non costa molta fatica esaminare quel che accade fuori dal nostro orto. Eppure, a differenza di quanto accade per esempio nel mondo del commercio e delle multinazionali, dove condividere le cosiddette best practice è un’abitudine consolidata, chi governa e chi amministra non sembra trovare mai nulla che possa o che meriti di essere copiato, tanto che di fronte a una domanda semplice, o addirittura ingenua, come «perché non lo facciamo anche noi?» pochi sanno dare una risposta chiara e sicura. Così accade anche in questi giorni, che appaiono ancora più estenuanti per come vengono prese le decisioni: ciascuno procede in ordine sparso, ognuno con la sua testa, le sue risorse, il suo portafogli e persino i suoi scienziati, incaponendosi sulla propria strategia e, anche dove si potrebbe, sdegnandosi di fare come il vicino di casa che naviga in migliori acque. E se, di fronte all’evidenza o al malcontento, si procede a invertire la rotta e si adottano finalmente i provvedimenti altrui, lo si fa in silenzio, con un vago senso di vergogna e pronti a rivendicare primati e paternità.
Sono abituato a guardare il mondo dalle parole e a ragionare partendo dal linguaggio e in questo caso il fraintendimento, mi viene da pensare, nasce da ciò che evoca la parola «copiare». Se il significato non è in sé negativo — vuol dire «riprodurre», «duplicare» — nella nostra educazione la parola viene da subito rivestita di un’accezione deteriore perché presenta un atto da non commettere o da compiere clandestinamente. Accade così già sui banchi di scuola, dove la copiatura è demonizzata: il bambino impara ad associarla a una specie di furto, in cui si ruba a un altro ciò che, per varie ragioni, non si sa. È raro che si legittimi questo gesto in nome della condivisione del sapere e della solidarietà tra pari. È raro che si sottolinei come, da un punto di vista pedagogico, copiare sia un modo di apprendere e di lavorare insieme agli altri. Si preferisce inculcare l’idea che dobbiamo farcela da soli e che il sapere sia proprietà privata, come il denaro. Così facendo da questa parola abbiamo eliminato ciò che di buono comprende: lo spirito di collaborazione, l’emulazione, la condivisione.
Non sono semplici ricordi di scuola, sono momenti di formazione che poi condizionano la nostra vita adulta. Si finisce, consapevolmente o no, col credere che copiare sia ciò che non è: una dichiarazione di inferiorità, una scorrettezza ai danni di qualcuno, un atto sterile o una trasposizione gretta di un metodo, di un’idea, di una pratica. Non è affatto così. Copiare è un’azione piena di umiltà e di intelligenza, è un riconoscimento dei nostri limiti e dei nostri bisogni, della capacità di osservare gli altri e di contenere l’invidia. È la dimostrazione che abbiamo ancora da imparare e che gli altri possono insegnarci qualcosa. Non è il copia-incolla del pc, non è la disonestà del plagio, si tratta piuttosto di dialogare con una fonte per conformarla alle nostre necessità e per prenderne ciò che di buono contiene. Insomma, copiare è difficile e credere che sia una questione meccanica o di poco conto sarebbe un errore grossolano. E infine sappiamo che non si può sempre copiare perché le situazioni sono molte volte differenti, i presupposti spesso diversi, ecco perché delude constatare che, quando è possibile, ci si rinuncia in nome di ragioni quasi sempre individualistiche, di parte, di consenso e comunque estranee all’interesse collettivo.
Eppure, se avessimo rinunciato a copiare, la storia dell’uomo non sarebbe arrivata fin qui. L’alfabeto che ancora usiamo è stato copiato dai fenici. I greci si accorsero che i fenici sapevano scrivere: il loro sistema funzionava bene e permetteva di tenere la contabilità delle merci. I fenici erano abili navigatori per la qualità delle loro imbarcazioni e per la loro capacità di governare il mare, certamente, ma erano ancor prima abili commercianti perché sapevano scrivere e, grazie a questa invenzione tecnologica, riuscivano ad avere una burocrazia che permetteva la gestione e il controllo degli scambi. I greci capiscono subito che si tratta di un’invenzione straordinaria e non si vergognano di copiarla. Anzi, lo dicono chiaramente che l’hanno copiata perché le lettere le chiamano phoinichèia gràmmata, «segni fenici». Altro che furto o vergogna. I greci però sono un altro popolo, con altre necessità e con un altro sguardo sul mondo. Dunque, il primo uso che faranno di quell’invenzione sarà completamente diverso da quello fenicio: adopereranno l’alfabeto per trascrivere i poemi omerici, il canto della poesia. Per farlo sentiranno il bisogno di aggiungere le vocali, dunque di trasformare e adattare la fonte da cui hanno attinto. Mi sembra un esempio calzante — e ogni studioso saprebbe portarne altri dal suo campo — che restituisce la complessità dell’azione. Se ancora oggi leggiamo Platone e Dante è soltanto perché qualcuno li ha ricopiati, riconoscendo la grandezza di parole non sue e l’importanza che arrivassero ad altri come un dono e una possibilità. I copisti, in tutte le civiltà antiche, occupano i gradini più alti della scala sociale perché non sono meri esecutori, ma custodi di un sapere che contempla un’idea di futuro da trasmettere all’umanità.proprio adesso che stiamo scoprendo quanto sia importante lasciare la parola agli esperti, proprio ora che realizziamo quanto esitare o mettere in campo strategie mal congegnate possa provocare non solo danni ma anche un ingente numero di morti, potrebbe essere di aiuto restituire a certe parole il loro valore più vero, spazzando via quella polvere di pregiudizio e di moralismo che ci impedisce di guardarle per ciò che sono: una prova di umiltà, la possibilità di un dialogo dell’intelligenza, un aiuto concreto per ricominciare.
Se ancora oggi leggiamo Platone e Dante è perché qualcuno li ha ricopiati