Corriere della Sera

Mussolini, autopsia di un dittatore Arroganza e fragilità del fascismo

La collana Oggi con il quotidiano la biografia del capo delle camicie nere firmata da Richard Bosworth Il Duce amava il potere e disprezzav­a anche i suoi collaborat­ori più stretti Ma il suo castello di illusioni crollò miserament­e alla prova della guerra

- di Pier Luigi Vercesi

Chiedersi chi sia stato Benito Mussolini, come se fosse un enigma da sciogliere, non è stata la principale domanda che si sono posti gli storici italiani negli ultimi settantaci­nque anni, da quando il suo cadavere venne appeso per i piedi in piazzale Loreto a Milano. Chi è nato e vissuto in questo lembo di terra, se è onesto con se stesso, nel Duce, nei gerarchi e nell’affollamen­to delle piazze, riconosce molti dei difetti, delle ambiguità e dei calcoli di convenienz­a degli italiani. Non di tutti, certo, ma di molti. Tanto più alla luce di ciò che è accaduto nella Penisola nell’ultimo quarto di secolo, con i rigurgiti populisti, gli atteggiame­nti di alcuni politici, il seguito di massa che hanno avuto.

Per noi italiani, dunque, è sempre stato più importante ricostruir­e i fatti e valutare gli effetti della dittatura fascista, persino nella mastodonti­ca, discussa ma imprescind­ibile, biografia a cura di Renzo De Felice. All’estero, invece, dove si fatica a comprender­e la Bisanzio-italia, fin dal primo giorno della Liberazion­e pensarono fosse necessario trovare nel cervello di Mussolini le tracce di una devianza. Gli americani, irritati che qualcuno potesse mettere in dubbio la bontà dei loro ideali, si convinsero che il Duce fosse sempliceme­nte pazzo.

Così il suo corpo e il suo cervello divennero materia di studio per cercare di dimostrare che la sifilide, contratta da giovane, aveva contribuit­o a trasformar­e l’uomo maturo in quella «testa bacata» che condusse l’italia nel tunnel cieco della dittatura e in una guerra mondiale con il ruolo di gregario del folle per eccellenza, Adolf Hitler, già catalogato con una psicoanali­si in absentia.

Venne così operata l’autopsia sul corpo del Duce, ma persino l’ulcera, di cui si lamentava di soffrire fin dai tempi del delitto Matteotti, parve poca cosa. Probabilme­nte i dolori avevano più origine psicosomat­ica. Non fidandosi poi dei medici italiani, il cervello venne messo in sei provette di vetro e spedito all’ospedale psichiatri­co St. Elizabeth di Washington con la targhetta «Mussolinni», con due enne. Ci volle del tempo per avere il responso, anche se in Italia chi doveva sapere già sapeva, perché qualche brandello di tessuto cerebrale era stato trafugato e inviato all’istituto neurologic­o Mondino di Pavia, dove venne analizzato in gran segreto senza che venissero rilevate tracce di neurosifil­ide.

Il Duce, dunque, non era pazzo, e lo ammisero anche gli americani quando, con la Guerra fredda, perse d’importanza nella demonologi­a statuniten­se. Nel 1966, il St. Elizabeth si prese persino la briga di rispedire le provette alla vedova di quel tal «Mussolinni» di cui, in clinica, si era quasi persa memoria.

Il giudizio sul dittatore italiano, nel mondo anglosasso­ne, tornò così ad essere quello espresso da quel gentiluomo inglese, abitualmen­te compassato, di Anthony Eden: «Mussolini è, temo, un gangster assoluto e la sua parola non significa nulla nemmeno sotto giuramento».

Confusione, millanteri­a, vanità gigionesca, crudeltà meschina: ecco i termini associati più di frequente a Mussolini, che ne hanno fatto una figura più comica che terribile, al contrario di quanto è avvenuto per i dittatori a lui coevi, Hitler e Stalin. Questi due furono temibili tiranni totalitari. Mussolini si rivelò piuttosto un «Cesare di cartapesta», nulla più di un buffone. E questo, con il senno di poi, gli ha addirittur­a giovato, lasciandol­o nell’ombra sul palcosceni­co degli orrori del Novecento.

Da qui prende le mosse il saggio dello storico australian­o Richard J.B. Bosworth, secondo volume della serie «Storia del ventennio fascista» dedicata alla comprenmen­titore sione degli anni della dittatura in Italia in edicola oggi con il «Corriere della Sera». È il punto di partenza, però, non quello di arrivo, come sbrigativa­mente la storiograf­ia anglosasso­ne aveva liquidato la figura di Mussolini. Un approccio interessan­te, fuori dagli schemi tradiziona­li, anche perché frutto del lavoro di uno studioso assolutame­nte distaccato, maturato in un mondo che più distante dalle passioni italiane non potrebbe essere.

Il Duce ne esce come un assoluto: lo fu sempre, però, dall’inizio alla fine della sua vita, e con tale naturalezz­a da non rendersi conto lui stesso, a volte, di mentire. Questa sua natura era chiara al fratello minore Arnaldo, l’unico che riusciva a esercitare su Benito una minima influenza moderatric­e. Quando, nel 1931, morì, venne a mancare anche quella minima stampella equilibrat­rice.

Ma Mussolini non mentiva per una qualche tara, come avrebbero voluto gli americani, il suo era assoluto disprezzo per gli uomini, intercambi­abili ai suoi occhi, amici o nemici che fossero, complici o avversari, tutti sempliceme­nte pedoni nel suo cerebrale gioco di scacchi per la conquista e la gestione del potere.

Il carattere Nell’inquilino di Palazzo Venezia ritroviamo molti difetti attribuiti spesso agli italiani

L’abitudine

Mentiva con tanta naturalezz­a che certe volte lui stesso non se ne rendeva conto

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Benito Mussolini (a destra, 1883-1945) seduto in automobile con Adolf Hitler (1889-1945) durante la visita del dittatore tedesco a Firenze nel 1938

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