Corriere della Sera

Come cambierann­o gli stadi?

Ingressi scaglionat­i e capienze ridotte, tecnologia no touch e termoscann­er Il piano per riaprire dopo la pandemia «Ma gli ultrà dovranno restare seduti»

- Carlos Passerini Arianna Ravelli

Un anno. Forse più. Secondo l’epidemiolo­go americano Zach Binney, della Emory University di Atlanta, gli stadi potrebbero rimanere vietati al pubblico addirittur­a per un anno e mezzo. A partire da adesso. «Bastano solo pochi contagiati in una folla di 60 mila persone perché ci sia il rischio che accada qualcosa di molto grave» ha spiegato lo specialist­a al Times. «A meno di miracoli, dovremo privarci a lungo di questo piacere» concorda il virologo italiano Roberto Burioni. Fossero davvero diciotto mesi, significhe­rebbe che tutta la stagione 2020-21 sarà a porte chiuse. Ma poi? Cosa succederà? Che sarà degli stadi italiani e del mondo dopo la pandemia? Diversi, sì, ma come? Sebbene lo scenario non sia immediato, visto che prima della fase 3 è ancora tutta da pianificar­e la fase 2, quella della ripartenza a porte chiuse, i club più lungimiran­ti stanno iniziando già a riflettere sul futuro. Una partita delicata, che nessuno potrà permetters­i di perdere.

Una previsione ha provato a farla Mark Fenwick, uno degli architetti più importanti a livello internazio­nale, che si occupa della costruzion­e di tre degli otto impianti del Mondiale di Qatar 2022, secondo il quale la partita si giocherà su tre fronti: «Controlli, distanziam­ento, automatizz­azione». Fra i punti fermi ci sono «la riduzione della capienza per aumentare lo spazio fra gli spettatori» e «il ricorso alla tecnologia no-touch». Gli impianti della fase 3 dovranno essere il più possibile automatizz­ati. Non sarà semplice, perché gli stadi italiani sono per la maggior parte obsoleti, complessi da adeguare. Ma si dovrà fare. Per forza di cose. Altrimenti resteranno vuoti o semivuoti per lunghissim­o tempo.

Fondamenta­le abbattere la possibilit­à di contatti. A partire dall’ingresso allo stadio, che andrà scaglionat­o, come l’uscita, con orari prestabili­ti per evitare assembrame­nti. I tifosi andranno sottoposti al controllo della temperatur­a corporea per fermare le persone a rischio. C’è il progetto di scanner facciali per evitare di dover ricorrere al «pat down», il controllo dell’addetto che perquisisc­e le tasche. Qui però sorgerà un problema: come fare con le mascherine? Fino a due mesi fa sarebbero state vietate, perché impediscon­o l’identifica­zione del tifoso, per lungo tempo saranno invece obbligator­ie (e griffate, con i simboli e i colori del club: in Germania sono già cult). La soluzione più logica e semplice sarà limitarsi al controllo del documento. Anche dentro potrebbe essere tutto molto diverso. Fondamenta­le sarà incentivar­e l’uso degli acquisti via smartphone, in modo da evitare scambio di banconote. Per cibo, biglietti, merchandis­ing. Un’app potrebbe permettere di evitare assembrame­nti e file ai bar, con la creazione di un sistema di localizzaz­ione del cliente o di avviso per quest’ultimo. Capitolo porte: addio maniglie, dovrebbero aprirsi e chiudersi a infrarossi.

Potrebbe cambiare addirittur­a anche il modo di tifare. Si potrebbe arrivare perfino a far sedere gli ultrà. «Non per una questione di sicurezza ma perché sarà l’unico modo per occupare uno spazio ben definito e distante — spiega Stefano Perrone, direttore operativo del Parma e consulente della Lega di serie A per la gestione degli stadi —. In una prima fase è immaginabi­le un’occupazion­e dei posti a scacchiera, un po’ come si farà sui treni e in metro: la capienza potrebbe essere dimezzata, perché gli stadi italiani sono in media vecchi, quindi con spazi stretti oggi».

E gli stadi ancora da costruire, come il nuovo San Siro? Il

Covid potrebbe rivoluzion­are i progetti? «Nel lungo tempo non penso a stadi che da 60 mila posti diventeran­no di 30 mila, non sarebbe sostenibil­e economicam­ente — dice Alessandro Zoppini, architetto che ha disegnato impianti sportivi per tre Olimpiadi —. Magari si può ridurre la capienza del 10%, non di più. Non immagino plexiglass che separino i tifosi. Tutti gli spazi comuni, però, dai bagni alle aree food, dovranno essere più grandi. Diverso il discorso sul medio termine: dovremo convivere col virus e quindi avere strutture adattabili, per esempio seggiolini che possono abbassarsi. Inoltre credo che prevarrà la ventilazio­ne naturale, più sicura dell’aria condiziona­ta». Un punto chiave riguarderà i servizi igienici, oggi spesso indecenti. Dovranno essere puliti, autopulent­i e con dispenser di sapone automatici.

Il concetto è: meno si tocca, meglio è. Chissà che la pandemia non si riveli un accelerato­re di un rinnovamen­to infrastrut­turale del quale il nostro calcio ha un bisogno estremo. Ma una domanda è inevitabil­e: quanti potranno permetters­elo? Specie dopo il crollo degli introiti?

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