SCELTE (E DOVERI)
Ci siamo. Tra ventiquattro ore arriva il congiunto. Si tratterà della svolta finora più grande di questa crisi. Almeno dal punto di vista psicologico. Milioni di persone usciranno dall’isolamento domestico per incontrare un parente, un «affetto stabile», un cugino di sesto grado, forse un amante, ma non un amico. Per i single, in particolare, sarà una festa. È l’inizio di un «new normal», l’alba di una ritrovata socialità.
Però il ritorno del libero arbitrio, anche se in dosi minime, porterà con sé inevitabilmente nuovi dilemmi morali, obbligandoci a scelte di vita che spettano solo a noi, e non all’ufficio legislativo di Palazzo Chigi.
La prima delle quali è: quale congiunto? Deve infatti essere uno alla volta, escluse riunioni sociali, pranzi e cene. A chi concederemo il bene della nostra vista? Perché di vista solo si tratta. E qui arriva il secondo dilemma. Si sente dire: ma se non ti posso abbracciare, che ci vediamo a fare? Può sembrare eccessivo, ma molti soffrono del «complesso dell’appestato». Si offendono se notano che li tieni a distanza, o che indossi in fretta e furia la mascherina quando s’avvicinano. Un caso particolarmente delicato si presenta per il primo incontro tra nonni e nipoti: un gruppo di volontari della Protezione civile ha già messo in rete un dettagliato vademecum. Ma sarà dura anche per le coppie che si rincontrano dopo lunga separazione: una congiunzione a distanza potrebbe non bastare. Alcuni metteranno alla prova la profondità platonica dei loro amori. Altri confidano nel rilassamento della macchina repressiva dello Stato, segnalandosi l’un l’altro con complicità il titolo di un quotidiano: «Niente controlli in casa: i comportamenti sono lasciati allo scrupolo dei singoli». Bontà loro.
Ma un dilemma è tale proprio perché distingue tra comportamento morale e comportamento legale. Alla legge si può aderire per pura convenienza o timore della punizione, ma anche per convinzione. E allora, che cosa deve fare un cittadino dotato di senso etico?
I fautori del non rispettare alla lettera regole troppo complicate e astruse per poter ingabbiare la complessità e le sfumature della vita reale, hanno buoni argomenti: dopo due mesi di lockdown c’è stanchezza e talvolta un senso di ribellione verso un clima di controllo sociale esasperato, che ha compreso perfino inviti alla delazione. In queste settimane si è intravista, accanto alla sacrosanta preoccupazione per la salute pubblica, anche qualche utopia di palingenesi della specie umana, magari gestita dall’alto, come se una sorta di Big Brother potesse in fondo renderci migliori. E poi: visto che durerà, e tra qualche mese saremo anche più a rischio dopo le riaperture di uffici e negozi, che facciamo, non ci abbracciamo mai più?
I sostenitori della regola si rifugiano dietro una serie di certezze che non hanno, e che comunque non dipendono da loro: prima o poi arriverà il vaccino, il test, il tampone di massa, la app, sapremo, saremo tracciati, e se immuni potremo di nuovo toccarci. Ma sono un po’ come i pareri degli esperti: più auspici che speranze. A rifletterci bene, si può concludere che l’unico argomento veramente razionale per rispettare questa singolare mole di norme è l’imperativo categorico kantiano: agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere come principio universale. Ovvero: fa’ quel che devi, augurandoti che tutti lo facciano.
Siamo infatti nella tipica situazione in cui, seguendo la lezione del filosofo tedesco, dobbiamo obbedire alla norma anche se e quando fosse ingiusta. E questo perché abbiamo bisogno di una norma anche più che della sua effettiva efficacia, perfino indipendentemente dal suo esito e dal nostro interesse. L’assenza della legge, in queste condizioni, manderebbe infatti in frantumi l’intero sistema sociale, e quella stessa libertà che ci è giustamente così cara sarebbe continuamente esposta al rischio di essere violata dal comportamento sbagliato di altri (basti pensare a un «positivo» irresponsabile o a chi privilegi il profitto alla sicurezza). A causa della «insocievole socievolezza» del genere umano, Kant arrivava a dire che perfino il dispotismo sarebbe meglio dell’anarchia. Non ci spingiamo a tanto: si può ritenere che, per quanto abbia deliberato troppo spesso a porte chiuse, il comitato di salute pubblica che ci governa da due mesi non abbia violato la Costituzione. Il dispotismo è un’altra cosa. E in ogni caso disporremo prima o poi dell’arma del voto per
Norme troppo complicate Bisogna rendere più chiaro lo scopo delle regole e affidarsi al senso di responsabilità
giudicare: in una società liberale non c’è bisogno di disobbedire per dissentire.
Piuttosto, dovremmo smettere tutti, governanti e governati, di fare tanto affidamento su norme talmente dettagliate da rivelarsi sempre più inadeguate a regolare la vita, man mano che questa ricomincia. Il nostro è purtroppo il Paese delle pandette, in cui serve una circolare interpretativa anche per spiegare che cosa voglia dire «congiunti» o «passeggiata»; un Paese con una produzione legislativa record in Europa, perciò restio ad affidarsi a sistemi e codici di autoregolamentazione, nei quali lo Stato fissa solo le regole generali e gli individui e i gruppi sociali le applicano secondo la loro responsabilità.
Nella recente produzione sconfinata di circolari e ordinanze, statali e regionali, si è intravista la stessa concezione del rapporto con il cittadino/suddito che spesso lamentiamo per le norme fiscali. Molto meno si è prodotto per offrire servizi pubblici e soluzioni alternative a chi torna al lavoro da domani, e capisce da solo che è pericoloso salire su un bus affollato.
Forse si può avere più fiducia negli italiani. Finché hanno capito che cosa andava fatto e perché, si sono infatti comportati correttamente senza neanche tante misure repressive. Si potrebbe dunque tentare una «fase due» creativa: render più chiaro qual è lo scopo finale che si propone ai cittadini, e affidarsi di più al loro senso di responsabilità e ai loro imperativi categorici.